Quante parole spese a proposito della pertinenza, in ambito operistico, di un allestimento teatralmente libero piuttosto che di uno fedelmente aderente ai dettami richiesti dal libretto … in ogni occasione ecco pronta a sorgere spesso una melodrammatica ‘tenzone’ tra custodi della tradizione classica e ‘spregiudicati’ quanto stolti innovatori , eterno dibattito che , nato con la storia dell’uomo , non accenna con il tempo a scemare , rinfocolando anzi vecchi slogan e luoghi comuni . Una buona occasione mi sembra allora quella dell’allestimento del “Faust” ( sorto in coproduzione con la ” Israeli Opera ” di Tel Aviv” e l’Opera di Lausanne) presentato al Teatro Regio di Torino per fare due brevi osservazioni a questo proposito.
Uno spettacolo teatrale oggi ( e l’opera non fa eccezione perché ne rappresenta l’aspetto artisticamente quanto economicamente più impegnativo ) non può a mio parere prescindere da due posizioni : offrire un’interpretazione personale e coerente del testo rappresentato ( in questo caso la partitura) e rendersi sempre emotivamente permeabile ( non necessariamente comprensibile) al
pubblico senza il quale qualsiasi operazione teatrale risulterebbe priva di senso . Dunque l’opera del regista , sempre libera ed indipendente, può certo essere più o meno tradizionale , provocatoria
o ‘dissacrante’ basta che non dimentichi mai da dove parte e qual’è l’obiettivo che vuole raggiungere .
Detto questo veniamo a questo “Faust ” cui Stefano Poda dona una lettura personalissima e di estremo interesse .
Fulcro del palcoscenico è un grande anello, posto a circa 45 gradi di inclinazione rispetto al piano del palcoscenico ( disegnato a cerchi concentrici e su cui sono intuibili scritte latine inerenti l’origine del mondo ed i grandi interrogativi dell’uomo ) che racchiude, a seconda degli Atti, alcuni elementi simbolici (libri ammucchiati alla rinfusa , un lungo e candido ramo scheletrico, una croce piuttosto che un intreccio di fili) e che, a seconda delle situazioni, si solleva o abbassa fino a porsi completamente in verticale a fine opera . La sola immagine, non nuova certo ma efficacissima nel veicolare velocemente il tema che si vuole sviluppare o interpretare, domina con la sua massa la scena e catalizza l’attenzione e lo sguardo che da quel momento non lascerà più i due personaggi centrali ( Faust e Mefistofele) che spostandosi e giocando con quell’elemento ne veicoleranno via via la potenza simbolica così come le diversificate significanti . Non importa nello spettacolo che il luogo abbia una sua definizione spaziale mentre è invece basilare che rappresenti, attraverso i raffinati costumi, una vaga contemporaneità abitata da esseri simili dove appunto non esiste una peculiarità ma tutto è copiativo .
Bellissima e vincente l’idea, durante la scena della notte di Valpurga, di non cercare di visualizzare il male ma di veicolarne il concetto, cosí la terribile danza degli spettri ( una lode speciale ai bravi ballerini) fastidio della mente, fissazione, perversione, dipendenza e malia da cui risulta impossibile salvarsi, diventa uno dei momenti clou di questo allestimento tendenzialmente concettuale che, dalle pagine di Goethe mediate da Gounod, parte per arrivare a comunicare perfettamente il mistero, sempre più contemporaneo e dai confini sempre più evanescenti, dell’eterno conflitto tra santità e dannazione.
Va da sè che una bella produzione deve ospitare anche un cast di rilievo ed anche questo a Torino non è mancato.
Charles Castronovo è vocalità di indubbio interesse anche se non ideale per il ruolo di Faust che esigerebbe un timbro più lirico maggiormente adatto, per colore e volume, a tratteggiare con disinvoltura un ruolo che deve esprimere la fresca baldanza e l’innamorato slancio di un amore giovanile ed appassionato piuttosto che la tinta tendenzialmente brunita e di fatto non particolarmente ammaliante per colore ( anche in acuto) dell’artista . Nonostante ciò Castronovo si mostra artista sapiente e tecnicamente ben supportato, affronta il temuto do della romanza ( ” Salut demeure “) con sicurezza e giusto appoggio e lo smorza a dovere con un risultato, certo non sfolgorante, ma degno di un professionista serio e musicale che, mantenendosi sempre in linea con il ruolo interpretato, lo cesella in modo teatralmente più che convincente.
Ildar Abdrazakov si conferma oggi, per timbro, musicalità, robustezza tecnica e coinvolgente teatralità uno dei giovani bassi più interessanti nel panorama lirico internazionale. Il suo Mefistofele è raffinato e ‘ Romantico’ nel senso più ampio del termine, abile nel fraseggio e suadente quanto perfettamente a suo agio in partitura, il bravo artista sa ben piegare la sua bella vocalità ai comandi del complesso personaggio risolvendolo in modo mai convenzionale o banale.
Ottima vocalmente la Margherite tratteggiata dalla sensibile Irina Lungu che, in tutti i passaggi del dramma, riesce a comunicare, attraverso il suo raffinato strumento, il complesso animo del personaggio anche se forse un maggior sviluppo teatrale verso una sua più drammatica peculiarità resta ancora un po’ in superficie.
Interessante per la bella vocalità esibita ma nulla più Vasilij Ladjuk nel ruolo di Valentin così come il mezzosoprano Ketevan Kemoklidze nel ruolo di Siebel .
Completavano il cast: Samanta Korbey (Marthe) e Carlo Maria Orecchia (Wagner).
In linea con la lettura registica di Poda Stefano Noseda impostava un’orchestrazione ferrigna, scabra, essenziale e priva di particolari sfumature romantiche, concentrata su di una rappresentazione pregnante e coerentemente impostata.
Ottimo il Coro del Regio diretto dal M. Claudio Fenoglio.
Teatro stracolmo e grande successo di pubblico per questo allestimento, certo molto d’effetto e suggestivo, ma ugualmente impostato su una chiave di lettura rigorosa e coerente che potrebbe indicare una possibile alternativa per il futuro a spettacoli polverosi o estemporanee riscritture con buona pace dei rispettivi detrattori presentando semplicemente buoni spettacoli.
Torino , Teatro Regio 09/06/2015
SILVIA CAMPANA