IL “SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE” DEI CANTIERI INVISIBILI AL CAMPLOY DI VERONA. RECENSIONE

Di norma non recensiamo spettacoli di teatro amatoriale, non per snobismo ma perché di solito mirano al divertimento del pubblico ottenuto con mezzi facili: battute scontate, una pretesa di parlar “popolare” utilizzando a volte il dialetto ( che qualche tempo fa aveva anche le sue ragioni nel recupero di una tradizione colta radicata e diffusa) e che oggi, perse le proprie origini d’appartenenza, nella omologante massificazione si traduce in banalità ( quelle che non fanno riflettere) e soprattutto in cliché linguistici di scarso spessore ma di presa diretta; non si interrogano sui plurali significati dei testi rimanendo nella superficie più immediatamente godereccia e il lavoro d’attore non affonda le radici nel patrimonio di cultura teatrale che costruisce la storia del teatro, né tanto meno sente l’esigenza di dichiarare stili e poetiche.

Insomma sono i classici spettacoli d’intrattenimento, (il più delle volte ma non sempre perché ci sono significative eccezioni di ricerche anche rigorose, peccato rare) giusto per passare due ore se non si ha meglio da fare e dai quali certamente non si esce cambiati anzi, si esce rinfrancati di essere ciò che si è: c’è di peggio.

Ma non possiamo esimerci dal dire alcune cose sullo spettacolo “ Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare, portato in scena dalla compagnia “Cantieri Invisibili” visto al Teatro Camploy di Verona la sera del 29 gennaio 2016 per vari motivi: i “Cantieri Invisibili” sono una realtà teatrale nuova veronese ( anche se nascono dalla Compagnia amatoriale veronese Estravagario Teatro molto nota in città), sono inseriti in un contesto professionista come la Rassegna “L’altro Teatro” organizzata dal Comune di Verona in collaborazione con Arteven e lo spettacolo è firmato da Mario Morales, nome prestigioso legato al Theatre du Soleil.

L’azione scenica si svolge entro un cerchio a tratti luminoso e la tenda rossa del fondale richiama sia l’ingresso del circo che un’alta baracca di burattini. I cinque protagonisti dello spettacolo: Alberto Bronzato, Riccardo Pippa, Matteo Spiazzi, Isabella Macchi e Margherita Varricchio, a tratti si affacciano dall’alto, come burattini giganti, perlopiù entrano e agiscono nel cerchio dal fondo e simili a cinque clown portano tutti il naso rosso.

Innumerevoli sono state le messe in scena di questa nota opera, altrettante quante le interpretazioni che sono state fatte del testo dalle molteplici sfaccettature e che si presta tanto al gioco e alla burla, quanto ad analisi di maggiore profondità sociale e introspettiva.

In questo caso l’idea originale di far rappresentare la vicenda a dei clown risolve brillantemente sia la coloritura dei significati sottesi, sia la questione interpretativa che può legittimamente spostarsi dal credibile al faceto senza ulteriori giustificazioni e che quindi non richiede una “verità” scenica: un clown può permettersi tutto perché non è credibile per natura. Soprattutto la scelta di far agire il testo shakespeariano da cinque clown all’interno di un circo avrebbe potuto permettere ai personaggi di disancorarsi dalla realtà, giocando sul filo poetico immateriale e profondamente umano tanto amato da Fellini, se solo vi fosse stata quella sensibilità intenzionale e interpretativa nel mantenere in vita quel filo invisibile che lega il mondo reale a quello onirico con tutte le sue implicazioni.

Questa chiave di lettura, così calzante a questo testo shakespeariano che si diverte a giocare con l’imprevedibilità e i sentimenti scalzando certezze e mescolando luoghi e tempi, non è sfuggita a Morales che ha sottolineato quanto il mondo doppio del clown fosse vicino alla sensibilità shakespeariana ( anche se rispetto al filo conduttore delle tematiche shakespeariane e/o alla sua filosofia il dibattito critico non è unanime) e certamente a questo testo che sembra correre sempre lungo una doppia verità: la realtà e il sogno, l’illusione e la sua interpretazione.

Ma questa scelta di fondo apparentemente felice si è abbastanza presto trasformata in prigione, accentuata dal cerchio scenico invalicabile, ingabbiando i personaggi in ruoli predefiniti e poco dialettici e riducendo la complessa opera shakespeariana a banale “commediola degli equivoci”.

Il concetto di prigione avrebbe potuto costituire scelta interpretativa del testo, con Teseo ed Ippolita all’inizio affacciati alla “baracca”, possibili burattinai dell’intera situazione, se con più coraggio si fosse intrapresa questa strada ( o qualsiasi altra), ma così non ci pare sia stato.

Invece i personaggi, poco caratterizzati se non nell’aspetto esteriore, e in assenza di altre profondità, appoggiati a clichè noti ( anche la brava “Ermia”, che spicca tra gli altri per taglio di carattere e precisione interpretativa, ricordava la Mondaini nelle vesti di Sbirulino), non hanno trovato quello spazio interiore ed estetico per andare oltre, né sono riusciti a farci entrare in quel mondo ricco, sfaccettato e fantastico di cui Shakespeare ci parla attraverso le fate e i folletti del bosco e solo un bel gioco di movimento scenico e la fedeltà ad un testo comunque complesso li ha tenuti in vita salvandoli da una morte certa , teatralmente parlando.

E’ mancata cioè quella riflessione capace di illuminare il tutto, oltre la semplice descrizione degli eventi, quel punto di vista interpretativo che avrebbe giustificato la messa in scena dello spettacolo e la scelta di questo testo e che si sarebbe dovuta ripercuotere anche nello spessore attoriale.

Lo stesso Puck, personaggio chiave dell’opera, appare solo quale mago “necessario” ad introdurre il seguito dell’azione, azione che sembra diventare particolarmente pregnante, al contrario, nell’inserto della rappresentazione nella rappresentazione: lo spettacolo che cinque attori non professionisti stanno preparando come dono di nozze.

Giustamente svincolato dal resto e ambientato nel veneto dei nostri giorni sembra che questa parte permetta finalmente agli attori di misurarsi con le proprie reali corde, al punto di diventare il pezzo forte dello spettacolo con la certezza che verrà gradito.

Infatti all’utilizzo del dialetto con le inflessioni tipiche regionali e alle battute d’effetto il pubblico presente risponde subito con comprensione ed ilarità, mentre rimane poco chiaro il calderone finale di canti fatti dagli aspiranti attori che concludono lo spettacolo pescati da diverse tradizioni popolari e snaturati degli specifici contenuti, che pare ennesima concessione qualunquista ed ammiccante.

Che dire? Il teatro era quasi esaurito, il pubblico per maggioranza giovane ha gradito; certamente si è accostato ad un testo classico pietra miliare del teatro almeno fino ad un certo punto rispettato, ma semplificare la complessità in favore di un approccio più immediatamente leggibile perché capace di incontrare un gusto superficiale e poco pretenzioso, più sensibile al ridicolo che all’ironico, alla mimica delle battute piuttosto che ai contenuti sottesi e che si sbellica dalle risate non appena appare in scena un elmo da cui fuoriesce una scopa, è operazione sulla quale riflettere.

Emanuela Dal Pozzo

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