Un bel debutto nel complesso quello del ballerino e coreografo Ivan Cavallari in “Strings” del Corpo di Ballo dell’Arena di Verona: una sorta di scommessa giocata sul filo tra tradizione e innovazione, pur quest’ultima giocata in chiave sottile, più concettuale che dissacrante e nella cui espressione lirica e minimalista, momenti di forza dello spettacolo, non si è mai rinunciato a quell’equilibrio estetico capace di armonizzare il tutto e di congiungere il dettaglio alla piacevolezza dell’insieme.
Una scelta che avrebbe potuto anche essere maggiormente coraggiosa, con un taglio più deciso anche scenografico (che ha alternato momenti suggestivi ad altri meno originali) ma che ha probabilmente preferito mediare in modo realistico nella consapevolezza di rivolgersi ad un pubblico di spettatori poco abituati alle novità.
Il titolo stesso di questa coreografia “ Strings”, cioè “Corde” in scena al Teatro Filarmonico di Verona dal 18 al 21 febbraio 2016, è bene spiegato dal coreografo Cavallari in questo passo:
“Diciamo che tutto il balletto è creato intorno a fili, sia astratti che concreti. Corde che possono unire gli esseri umani in modo visibile, ma anche invisibile. A volte le sentiamo, legate a rapporti molto intimi, che non hanno bisogno di essere spiegati e intrecciano relazioni orizzontali e
verticali. Spesso riceviamo sensazioni, percezioni, senza sapere il perché: è la forza che esercitano questi fili invisibili, che hanno ispirato l’impianto generale del balletto, il quale non segue una linea narrativa ma questi intrecci emotivi”.
Eppure quest’ apertura coreografica lieve, lirica e interiore, con punte di intensità empatica, che abbandona a tratti figure e gestualità più consolidate in una ricerca raffinata di purezza simbiotica tra gesto e suono, accompagnata dalla bella esibizione musicale di Anna Tifu come violino solista e di Pietro Salvalaggio al pianoforte, sembra avere spiazzato qualcuno del pubblico, sull’onda di commenti di dichiarata incomprensione. La parte migliore del balletto, la prima, quella in cui il racconto entra nel gioco emotivo dipingendo umori e muovendosi con delicatezza e rispetto tra le sfaccettature interpersonali e relazionali, sembra assurgere a linguaggio “distante”, “incomprensibile”, “bello ma indecifrabile”. Sembra cioè risultare più difficile la lettura del “gesto interiore”, l’ interpretazione del suono in chiave individuale nonostante le belle e fluide performance di tutti gli interpreti e particolarmente di quella di alto livello degli ospiti Donting Xing e Dane Holland, o forse spiazzare l’introduzione di linguaggi diversi come la painting art.
E’ una constatazione sulla quale riflettere, lo spartiacque lungo il quale si confronta non solo la danza ma il linguaggio artistico in genere: nella molteplicità delle variabili in gioco ( necessità di trovare un punto di empatia con gli spettatori, ma anche libertà di esprimersi nella propria poetica e secondo la natura delle proprie riflessioni) il nodo cruciale rimane sempre lo stesso: ci fidiamo dell’arte, degli artisti, delle loro ricerche e dei loro linguaggi al punto di promuoverli e di sostenerli accettando lo scotto che la comprensione sia un percorso lungo anche educativo o preferiamo gettare la spugna e adattarci al gusto dilagante di clichè collaudati per una più facile e immediata soddisfazione economica?
C’è anche una terza chiave di lettura possibile che però presuppone uno spettatore formato alla sensibilità e non deformato da preconcetti standardizzati: non è la riconoscibilità di un linguaggio esteriore più o meno nuovo, più o meno riferibile ai grandi maestri che hanno segnato la storia evolutiva della danza a creare empatia, quanto piuttosto se la qualità di quella danza, indipendentemente dalla codificazione estetica scelta, possa toccare corde profonde, cioè emozionare, non fosse che oggi “ sentire” ed “emozione”, specchi di una società asettica e impermeabile da un lato, superficiale e mediamente poco esigente dall’altro, hanno connotazioni culturali diverse da quelle di un tempo.
Bravi i ballerini tutti e buono l’apporto dell’Orchestra dell’Arena di Verona diretta da Victor Hugo Toro e ottima la scelta delle musiche che in sintonia con il titolo hanno privilegiato quando necessario gli archi.
Buona anche l’accoglienza del pubblico.
Visto il 18.2.2016
Emanuela Dal Pozzo