Complice il fascino emanato dalla intatta cittadina fortificata medievale di San Gimignano, che anche quel turismo mordi e fuggi che affolla le vie in certe ore del giorno non riesce a scalfire, tanto slarghi e piazze rimangono protetti dal fluire dell’oggi, tra l’ombra delle torri e il silenzio eloquente delle pietre che ci parlano del loro passato, l’appuntamento con il Festival Orizzonti Verticali, quest’anno alla quarta Edizione, ridiventa un luogo di comunione che non tradisce le aspettative. Insomma sembra di tornare in un luogo che non si è mai lasciato veramente: un luogo mistico dell’animo in cui ci si sente in pace con le proprie radici e in cui si sta bene.
E non dev’essere un caso che uno dei fili conduttori di questo festival si snodi tra storia e bellezza, in approfondimenti che a partire dall’oggi toccano le stratificazioni più profonde alla ricerca di quella radice del comune sentire che si perde nella storia dei secoli, filo conduttore “di memoria” che attraversa esplicitamente almeno tre degli appuntamenti di venerdì 8 luglio, giorno in cui ero presente: il walkabout “ Sorseggiando Vernaccia, la prima doc” di Carlo Infante, la performance di Luca Scarlini “La stanza dell’amore: un racconto per la stanza del podestà di Memmo Di Filipuccio nella Torre Grossa di San Gimignano” e l’incontro tra pubblico, artisti, scrittori, critici, giornalisti, operatori “Generazioni a confronto”.
Insomma un Festival questo di Orizzonti Verticali che, come da tradizione, non si interroga solo sulle novità del presente, ma che cerca quel filo conduttore evolutivo capace di dare ossigeno all’oggi e alle nuove generazioni.
IL WALKABOUT “SORSEGGIANDO VERNACCIA, LA PRIMA DOC”
E’ prima Carlo Infante di Urban Experience in collaborazione con Marco Lisi del FAI- Fondo Ambiente Italiano venerdì 8 luglio alle 11 con il walkabout “Sorseggiando Vernaccia, la prima DOC”, che esplorando il territorio con radio ricetrasmittente insieme al proprio seguito munito di cuffie va a caccia di indizi, storici, naturalistici e artistici, che possano illuminare la nostra consapevolezza e rispetto ai quali potere liberamente esprimere opinioni, pescando dalla memoria individuale che trae forza da quella collettiva più colta e sotterranea.
E’ un modo per incrociare il proprio sguardo con quello dell’altro, spesso risonanza evocativa da fonti di memoria collettiva, dall’ascolto in cuffia della voce di Carmelo Bene, a sottolineare quanto l’ascolto possa essere teatrale anche in assenza di un corpo fisico, fino a quello conclusivo della storia della Vernaccia, le cui origini si danno per datazione certa almeno dal 1276, anno in cui viene citata in un raro documento storico che abbiamo il privilegio di visionare negli Archivi Comunali di San Gimignano ricchi di cose curiose, come il prezzo della Vernaccia differenziato, secondo modalità di trasporto, se su asino o su cavallo.
Un percorso, questo del walkabout, che emblematicamente partendo in pieno centro storico da Casa Campatelli, ricca di oggetti e di atmosfere che riportano alla luce personaggi, vicende e abitudini dei proprietari che qui si sono succeduti, tocca diversi ambiti di conoscenza in un approccio composito e complesso, con agili virate tra storia, botanica, estetica e teatro.
Un appuntamento importante la mostra/ archivio omaggio al grande Paolo Poli, allestita da Elena Magazzini nello spazio espositivo della sala della Cultura di via San Giovanni di San Gimignano, evento promosso da Orizzonti Verticali e aperto al pubblico dal 6 al 10 luglio, con reperti storici documento/testimonianza e rarità, raccolti con cura in archivio privato e conservati con rispetto reverenziale dal critico teatrale Sandro Avanzo, che di ogni frammento presente conosce la storia e la collocazione temporale, anche in virtù della conoscenza stretta con l’attore recentemente scomparso.
Merita una parentesi a sé questa mostra che rivela anche aspetti poco conosciuti della vita artistica di Poli e che ne segna le tappe significative, a partire dai primi dischi degli anni ’60 e dalle favole per bambini recitate a più voci con attori all’epoca non ancora noti, alla partecipazione ad operette e a fotoromanzi in periodi economici bui, fino ai successi televisivi di Canzonissima ’61 che gli permetteranno di aprire una propria Compagnia e di mettere in scena spettacoli come “Il Diavolo”, qui presente con l’autentico programma di sala e il censurato ” Rita da Cascia”, ripreso molti anni dopo con un mutare dei tempi e una censura più benevola.
Un excursus variegato di stampe, cd, vinili, musicassette, foto pubblicate su riviste come Frigidaire e Playmen, tutti materiali rari di proprietà di Avanzo, che si apre e si chiude con la prima e l’ultima intervista pubblicate dell’attore scomparso.
Il walkabout poi continua attraverso un sentiero verde che costeggia le mura della cittadina e che offre frutti ed erbe aromatiche, ancora fonti di antichi saperi sui quali ci confrontiamo, per raggiungere il vecchio bagolaro datato 130 anni ( senza dubbio il più vecchio della zona) che domina la piazza antistante gli archivi comunali, prima di concludere il nostro giro al Museo della Vernaccia della Rocca con l’assaggio della Vernaccia doc nel cinquantesimo del suo riconoscimento.
Un bombardamento di stimoli che ci raggiungono da più punti, una complessità di approccio che ci investe a più livelli, tesa a liberare i nostri canali ricettivi saturi di informazioni “spam”: un bagno liberatorio depurativo e antistress che dovrebbe far parte dei cicli “benessere”.
Se ne parla incidentalmente ( ma non casualmente) durante la passeggiata, di quanto il benessere sia frutto di empatia, sia un uscire da se stessi per andare incontro all’altro e di quanto il teatro possa essere inteso anche in questa nuova formula, quale cura preventiva rispetto ai malanni sociali che ci attanagliano.
In dirittura d’arrivo alla Rocca mi diverto a provocare Carlo dicendogli che queste benefiche passeggiate raccolgono i cocci della nostra società devastata, che dovrebbero esistere anche altre possibilità a monte, e non solo a valle come in questo caso, di prevenzione contro la disgregazione in atto. Riflettiamo sulla scommessa di potere coinvolgere insieme nei walkabout cinque generazioni.
“LA STANZA DELL’AMORE: UN RACCONTO PER LA STANZA DEL PODESTA’ DI MEMMO DI FILIPPUCCIO NELLA TORRE GROSSA DI SAN GIMIGNANO”
Anche Luca Scarlini sempre venerdì alle 18,30 con la performance “La stanza dell’amore: un racconto per la stanza del podestà di Memmo Di Filippuccio nella Torre Grossa di San Gimignano”, ci parla di storia e di bellezza e lo fa in modo competente e leggero, ironico e profondo, esplorando più registri musicali: da una ricerca filologica di musiche rinascimentali fino a canzoni a noi più vicine rock o trasgressive nell’impatto, per parlarci d’amore e di sesso.
Perchè gli affreschi in questione, rinvenuti alla luce dopo un restauro relativamente recente, di datazione medievale, sembrano ironizzare sul costume del tempo con scene sadomaso e di sesso esplicito. Scarlini ipotizza tra il serio e il faceto che l’artista allora studente si fosse preso qualche rivincita su Aristotele, fondamentale materia di studio obbligatoria, e qui raffigurato quale soggetto di scherno.
E’ comunque evidente, aldilà dei margini interpretativi soggettivi, che Scarlini non è solo un performer ma uno storico dalla profonda preparazione e capace di irretire l’uditorio con note argute e leggerezze architettate ad hoc, senza mai perdere di vista il rigore intellettuale dello studioso che propone un percorso di conoscenza che interagisce con il presente: un dialogo stretto cominciato molti secoli fa e che va visto più come ricchezza esplorativa immediatamente spendibile che come cimelio da tenere in soffitta, più luogo di riflessione critica capace di arricchire la nostra umanità che un sapere in memoria d’archivio.
“ GENERAZIONI A CONFRONTO”. SPUNTI CRITICI PER UNA RIFLESSIONE.
L’incontro tra pubblico, artisti, scrittori, critici, giornalisti e operatori “ Generazioni a confronto” condotto con gentilezza da Sandro Avanzo nella giornata dell’ 8 luglio, ma appuntamento quotidiano con conduzione diversa giorno per giorno per la durata di tutto il Festival, è un tentativo a ritroso di rintracciare le radici comuni del fare teatro, e soprattutto di trovare quel linguaggio comune di confronto che sembra essersi incrinato nel passaggio generazionale.
Una scommessa iniziata già dalla Prima Edizione del Festival Orizzonti Verticali e che delinea uno dei suoi tratti più caratteristici: l’interazione tra diverse generazioni, il passaggio di testimone tra chi inevitabilmente è destinato ad uscire dalla scena e chi vi sta entrando.
Massiccia la presenza delle generazioni passate, scarsa quella delle nuove, forse già essa stessa sintomo di scarsa considerazione del problema.
Ciò che emerge dagli interventi è che quell’apprendistato che alcuni anni fa era almeno parzialmente garantito da un ingaggio a lungo termine in Compagnia sembra oggi completamente lasciato in balia dell’iniziativa individuale e praticamente osteggiato da una pratica teatrale di rincorsa ai bandi e ai finanziamenti e a tempi celeri che richiedono risultati immediati documentabili e che poco si conciliano con termini come “percorsi”, “processi”, “approfondimenti”.
Non solo sembra quindi venire dimenticata una memoria antecedente, la memoria storica teatrale fonte depositaria di concetti, valori, pratiche, linguaggi cui potere attingere, ma sembrerebbe venire trasgredita anche nei fatti la possibilità di un percorso dell’oggi, a favore di un risultato immediato e immediatamente fruibile.
E’ facile comprendere come, se la tendenza venisse confermata su larga scala e occupasse larghe frange delle nuove produzioni, il teatro diventerebbe semplice prodotto di consumo inserendosi in quella catena “consumistica” fagocitante che poco spazio lascia all’artigianalità, alla crescita artistica individuale e al “fare insieme” che è una delle fondamentali pratiche che una buona parte del teatro rivendica ( o rivendicava) anche come crescita democratica sociale, mentre il talento e il successo emergerebbero più dalla genialità dell’idea sul nascere che dalla sua conseguente rielaborazione: cosa d’altronde già visibile in molte performances ermetiche e pluripremiate, in un ritiro narcisistico dell’io già evidente trasversalmente in altri ambiti culturali. ( Pensiamo ad esempio alla giovane letteratura contemporanea sempre meno proiettata in una visione d’insieme o sociale o collettiva a favore di unici protagonisti monologanti)
Il problema quindi si sposta naturalmente su un’emergenza, e forse nuova “urgenza” di quanti si affacciano o si sono da tempo affacciati al mondo del teatro: la necessità di nuovi spazi in cui crescere professionalmente, creativamente, con possibilità di interazioni con altri linguaggi frutto di approfondimenti motivati ( e non dettati da mode o gusti del momento in un uso della tecnologia più come fine che come mezzo), senza la pressante preoccupazione di una conclusione forzata a tempi record.
Urgenza che certamente sulla base delle pregresse esperienze avvertono più le vecchie generazioni che le nuove, non sappiamo queste ultime quanto consapevoli del loro esserne orfani. In modo più esplicito non è detto cioè che l’attenzione al percorso piuttosto che all’immediatezza del risultato sia un obiettivo anche delle nuove generazioni cresciute su altri standard e probabilmente più motivate ad emergere che a “ valere”, sull’onda di una società che incoraggia più il successo e l’autoaffermazione che le capacità e la loro espressione creativa.
“FERRUCCIO SOLERI, UNA VITA D’ARLECCHINO”
Sempre sul filo della memoria l’interessante incontro/evento giovedì 7 luglio alle ore 21 sotto la Loggia del Teatro dei Leggeri “ Ferruccio Soleri, una vita d’Arlecchino” introdotta da Mario Mattia Giorgetti, direttore della rivista Sipario e presente Soleri. Un’occasione non solo per ripercorrere la storia di questo grande Arlecchino che per cinquant’anni ha calcato la scena, ma anche per esplorare tanto le radici della storia della Commedia dell’Arte quanto le sue diramazioni nella storia del Teatro, attraverso documenti storici filmati ,da Dario Fo ad Eugenio Barba, dal grammelot fino alla presenza scenica dell’attore, con spezzoni di scene dello stesso Soleri che Giorgetti ha sottolineato essere portatore di nuovi contributi nell’esplorazione del personaggio di Arlecchino: un interessante excursus storico che ha puntato il riflettore su alcuni passaggi chiave della ricerca teatrale italiana e non.
L’INTERVISTA A TUCCIO GUICCIARDINI, DIRETTORE ARTISTICO DEL FESTIVAL CON PATRIZIA DE BARI.
Le due significative novità di questa quarta edizione di festival: la cogestione del Festival con la Fondazione Fabbrica Europa e uno sguardo approfondito sulla letteratura in collaborazione con l’Associazione La Scintilla. Mi vuoi parlare delle ragioni di queste nuove collaborazioni e se c’è un nesso che le lega?
Il fatto di essere Soci fondatori di Fabbrica Europa, riconosciuta dalla Regione come Ente di rilevanza regionale, indubbiamente al momento ci tranquillizza, potendo contare su contributi certi per il prossimo quinquennio. E’ chiaro che questa stretta alleanza ci permette di progettare e di dedicarci a nuove produzioni, di offrire residenze a quanti cercano spazi per creare, di dilatare la nostra programmazione oltre il festival estivo, di sostanziare il significato del nostro sottotitolo “ Arti sceniche in cantiere” dedicandoci alla progettazione e alla crescita di nuovi talenti. E’ altrettanto evidente che l’ingresso di Fabbrica Europa dilata le nostre possibilità di collaborazione con altre realtà associative creando sinergie e reti. La collaborazione di quest’anno con l’Associazione La Scintilla, che a Poggibonsi ha avviato una serie di incontri con autori letterari a confronto, va senza dubbio in questa direzione.
Quali sono state le criticità e i punti di forza delle precedenti edizioni e come ti sei mosso quest’anno ( e come intendi muoverti per gli anni successivi) per migliorare gli obiettivi del Festival?
Direi soprattutto la precarietà economica che paralizza le possibilità riducendo la sfera d’azione. Anche se in quest’anno di assestamento ne abbiamo risentito ora dovremmo essere più tranquilli da questo punto di vista. L’obiettivo è sempre quello di allargare il raggio d’azione, di proporre alternative ai modelli filotelevisivi dilaganti, di occuparci di giovani talenti e di residenze per fare crescere progetti.
Si sente da più parti parlare, tanto in ambito teatrale che culturale in genere, di empatia e sinergia. Quanto sono importanti secondo te e lo sono più per una modalità di lavoro interna o in prospettiva di un rapporto con il territorio?
Direi che sono importanti in entrambi gli ambiti ovviamente, anche se il rapporto con il territorio non va frainteso. Non bisogna pensare che un rapporto privilegiato con il territorio significhi dare spazio o far rientrare le diverse realtà associative che vi operano. C’è sempre un filtro legato alla qualità che guida e che supera il rapporto amicale o strategico.
Un altro problema legato al territorio, quello immediato nel quale il festival avviene, è che spesso i residenti sembrano essere poco partecipi o poco ricettivi rispetto alle proposte del Festival. Ritieni che sia giusto porsene il problema cercando delle soluzioni o pensi che il Festival abbia una vita propria e un proprio respiro cui liberamente potere aderire o meno?
Personalmente sono contento dell’esito di quest’anno. Vedo una partecipazione maggiore agli spettacoli anche da parte dei residenti anche se sono consapevole che quanti vanno a vedere Panariello in piazza potrebbero non essere interessati ai nostri spettacoli che presuppongono spettatori più attenti e più attivi. Ma penso anche che il pubblico non vada “educato”, come sento spesso dire. Penso che democraticamente possa scegliere e noi possiamo offrirgli la possibilità di scelta offrendo cose diverse da quelle che solitamente è abituato a vedere. Insomma è importante potere proporre alternative perchè la scelta avvenga, nel rispetto delle scelte di tutti e sono fiducioso che gli spettatori abbiano la capacità del giudizio.
Una curiosità. Selezioni gli spettacoli perchè ti piacciono o perchè vuoi offrire una panoramica composita indipendentemente dal livello di qualità artistica?
Li scelgo non per gusto personale, piuttosto quando vedo qualità artistica. Non sempre mi piacciono ma rispetto il diritto degli spettatori di farsene una opinione.
Come vedi in prospettiva il teatro in Italia con una battuta. Sei ottimista o pessimista?
Io sono ottimista per natura quindi diciamo che sono ottimista.
GLI SPETTACOLI DELL’8 LUGLIO
“LE REVEIL PROFOND”
La performance di danza di Luigi Repetto “Le réveil profond”, creata per il festival SOAK 2015 con la collaborazione di Center For Performance Reasarch, in scena alle 19,30 dell’8 luglio 2016 a San Gimignano al Palazzo della Propositura, si interroga sul corpo e la sedimentazione delle sue emozioni: un lavoro di analisi del pre-emozionale, centrato sul momento del “farsi emozione” quando l’emozione non è ancora cosciente, un lavoro minimalista che fonda la propria forza sul controllo assoluto del corpo.
“ROCCU U STORTU”
Potente e prepotente questo spettacolo, testo di Francesco Suriano, con un bravissimo Fulvio Cauteruccio che ne firma anche la regia, coadiuvato in scena da Flavia Pezzo e da Peppe Voltarelli che esegue musiche originali.
Lo spettacolo, riconosciuto successo del 2001, ritorna dopo quindici anni in versione site specific per raccontarci in dialetto calabrese, e con un commento musicale originale e partecipato, attraverso una cruda cronaca di guerra del primo conflitto mondiale, anche il mondo emotivo e sommerso dello scemo del villaggio, nella drammaticità che si compie nella mente di chi ha subito tali violenze da rimanerne mutilato per sempre.
Ancora una volta Cauteruccio, protagonista indiscusso della scena, mostra di possedere grandi capacità nell’avventurarsi nei meandri emozionali e caratteriali dei suoi personaggi e grande generosità nel proporli.
In una grande prova attoriale sfaccettata e precisa si muove con sicurezza scandagliando con grande disinvoltura tutte le possibili sfumature espressive, prediligendo i tratti forti, marcati, ruvidi e senza filtri, fino ad arrivare all’aggressione emotiva dello spettatore che si sente soggiogato e imprigionato nel gioco/finzione fino alla fine.
E’ un approccio attoriale allo spettatore che merita una riflessione perchè tocca il delicato equilibrio attore e spettatore e il concetto conseguente di empatia. Un’empatia che per compiersi, dal mio personale punto di vista, avrebbe bisogno di un atto libero di adesione da parte dello spettatore, che qui invece si trova intrappolato all’interno di uno spazio scenico che si allarga oltre il limite convenuto e all’interno del quale subisce le pressioni di chi ne detiene il potere.
Un problema di misura che potrebbe interessare la sfera dell’etica teatrale.
“ ANTIGONE IN EXILIUM”
Un’ambivalenza contrastante in questo spettacolo multimediale, dal nostro punto di vista ancora in progress, del Teatro Cenit in coproduzione La MaMa New York, La MaMa Umbria International, dal quale si evince in positivo la freschezza di un desiderio di interazione umana ed artistica interculturale, operazione che però lascia drammaturgicamente nodi irrisolti, con un filo conduttore più intuito che portato ed un mescolamento di linguaggi, dai video art alle maschere, dalle sollecitazioni musicali alla narrazione, più esteticamente interessanti o “pregni” presi isolatamente, piuttosto che in relazione necessaria tra loro.
La regia di Bernardo Rey, che firma anche scenografia e maschere, e l’adattamento drammaturgico di Nube Sandoval scommettono sulla stretta relazione tra le vicende di Antigone e quelle più attuali dei profughi costretti all’esilio, puntando il dito sulla condizione comune di sradicamento.
Pur contando tra gli interpreti rifugiati di diverse parti del mondo, lo spettacolo sembra più suggestivo che convincente, alternando momenti d’impatto ad altri più scontati, con l’effetto di diluire in immagini estetiche quella forza intrinseca di denuncia e di disperazione.
Emanuela Dal Pozzo