Un’incursione veloce di due giorni a San Sepolcro, per respirare “ che aria tira” al Kilowatt Festival 2106- “E’ tempo di risplendere“, dalla citazione di una poesia introdotta tutte le sere dalla voce di Mariangela Gualtieri, perché si sa ogni Festival, a prescindere dagli spettacoli e dalla loro qualità, ha delle peculiarità. A volte affronta delle criticità sociali sulle quali è opportuno riflettere, sane, perchè innescano processi di pensiero, attivano reazioni e ipotesi di strategie che servono oltre il Festival, che aprono ad altri orizzonti, non necessariamente nuovi, magari affrontati con un altro sguardo.
Rimando il programma al Comunicato Stampa del Festival già pubblicato. Mi soffermo invece su due delle tematiche importanti che hanno attraversato questo Festival: il desiderio di memoria e i migranti.
Il tema della poesia, centrale al Festival nelle motivazioni d’intenti, è meglio espresso nell’intervista fatta a Luca Ricci, Direttore Artistico del Festival, un Festival noto per le interazioni con il territorio previste dal progetto europeo “Be SpectACtive!” e nato sull’onda di una iniziale creazione di un gruppo di “visionari” , normali spettatori volontari abilitati a selezionare una serie di spettacoli da inserire, dopo discussione motivata, all’interno del Festival.
Il tema della memoria, della sua necessità,è affrontato da Pietro Gaglianò nell’incontro con il pubblico del 20 luglio “Nuova didattica popolare” ( arte visiva), il cui tema portante sembra essere condensato nell’enunciato “ La memoria ha bisogno dell’immaginazione”. Gaglianò spiega l’importanza dei piccoli gesti, dei rituali patrimonio di un popolo, di una cultura, dell’importanza che non vengano dimenticati , dell’importanza che pratiche di questo tipo oggi debbano essere riattivate per non dimenticare chi siamo, le nostre origini. Affascinante percorso che lotta contro la massificazione dell’oggi, che ci induce a riflettere sulle nostre singole esistenze, che induce consapevolezza , che suggerisce possibili strategie di lotta contro l’omologazione. Ed ho un flash. Improvvisamente mi diventa più evidente perchè amo e cerco il teatro evocativo.
E sempre sul tema della memoria rimango sospesa ( è il termine giusto) allo spettacolo scelto dai visionari “Idiota” di Renata Ciaravino della Compagnia Dionisi, in scena il 21 luglio: un tuffo in un monologo fatto in prima persona, un’autoanalisi sulla vita a partire da un evento luttuoso, un percorso di memoria che attraversa un tempo recente per individuarne le contraddizioni, le ansie, le sovrastrutture che allontanano dall’autenticità dei sentimenti. E’ una memoria individuale che tocca temi trasversali, la ricerca di una memoria collettiva che ci appartiene e che si dipana in un tempo breve sì, ma pur sempre un tentativo di cercare il nesso e il senso delle cose attraverso l’analisi di un percorso temporale che costringe a guardarsi indietro oltre che dentro. E penso che sia un riinizio importante nel teatro. Abbiamo sete di memoria.
Il secondo tema, quello dei migranti, con un momento di confronto pubblico il 21 luglio con un gruppo di rifugiati politici presenti in Valtiberina dal titolo “ Migranti e rifugiati: cultura strumento di integrazione” e coordinato dal regista belga Michael De Cock che presenta anche lo spettacolo sullo stesso tema “Kamyon”, allestito in un camion per un pubblico a numero chiuso sullo stesso tema. Non lo vedo perchè sono claustrofobica e immagino già che sia proprio quello l’obiettivo dello spettacolo: far vivere agli spettatori il senso di claustrofia che vivono i migranti chiusi in un container. Sempre legato al sentimento del sentirsi straniero l’eperienza, per uno spettatore per volta, di “ The Stranger” di Daniele Bartolini (CAN), un percorso individuale che mira a spiazzare lo spettatore e a sollecitare in lui interrogativi.
Le modalità di entrambi, che esulano dai canoni teatrali cui siamo abituati, ma che del teatro rafforzano quel potere d’interpretazione e di azione sul reale che ci piace, meritano alcune riflessioni: la prima sulla perdita del valore evocativo della parola, del gesto, del suono, dell’immagine, di quei media sui quali fondiamo le nostre percezioni all’interno di una sfera che ci vede intellettualmente attivi. Se fosse vero che oggi si debba abdicare alla prova fisica di sensazioni indotte controllate, per indurre empatia, significa anche che abbiamo perso quelle modalità di rielaborazione intellettuale personale legate alla sfera del giudizio e che siamo molto fragili e plagiabili; la seconda sulla liceità del teatro fatto per un solo spettatore, modalità che sta prendendo piede in più contesti, quasi fatto privato, relazione interpersonale privilegiata, meccanismo di scavo introspettivo psicologico, teatro individuale, non più sociale e della cui socialità perde alcune caratteristiche-funzioni importanti, come quella della condivisione di un’esperienza e della sua socializzazione, indipendentemente dal valore dei contenuti veicolati e dalla giustezza degli obiettivi. Insomma qual è lo spartiacque tra teatro e seduta psicoterapica? E’ giusto ridefinire i confini di ciò che possa considerarsi teatro? Personalmente solo il dispendio di energie, ma anche di costi reali di queste sperimentazioni, che non possono avere un impatto sociale se non simbolico, mi lasciano perplessa. Alla fine, indipendentemente dalle motivazioni da cui è mosso e dall’onestà intellettuale di chi lo propone, finisce per essere un teatro snob per pochi eletti o un recupero in extremis dello spettatore, rarità in via di estinzione.
Ovviamente il dibattito è aperto.
Un terzo tema ha attraversato un paio di spettacoli presenti nel Festival e sempre scelti dai visionari: il tema della morte, curiosamente in entrambi presenza amica.
Parliamo dello spettacolo del Teatro dei Giordi “Sulla morte senza esagerare”, vincitore di diversi premi, in cui la morte si accompagna alla vita e dialoga con le persone, pronta ad accogliere, a giocare o a ritirarsi secondo le sollecitazioni degli uomini. Uno spettacolo garbato, ricco di sfumature, curato nei dettagli e in cui la parola è sostituita dal gesto e dalla maschera. Il secondo, “ Clockwork metaphisics” di Coppelia Theatre, meno convincente sul piano drammaturgico ma altrettanto ricco di immagini e simboli, ispirato alla pittrice surrealista spagnola Remedios Varo, è uno spettacolo di figura in cui la maschera dialoga con oggetti, pupazzi, burattini e marionette in un’atmosfera misteriosa e indefinita.
Calda e accogliente la presenza dei visionari che ci accompagnano agli spettacoli.
Perplessità personali per lo spettacolo “ Il giro del mondo in 80 giorni” del Teatro Sotterraneo, con Sara Bonaventura, Claudio Cirri e Mattia Tuliozi, ben tenuto in scena nonostante qualche problema tecnico e che ruota attorno ad una scommessa di un gentleman londinese di riuscire nell’impresa del giro nel mondo negli 80 giorni. Il gioco- spettacolo,che si avvale di un tabellone e della pesca di alcune carte con premi, quiz e penalità cui narratori e spettatori devono sottomettersi, è ambientato nell’800 pur prendendo a tratti dalla contemporaneità alcune tematiche sociali, da greenpeace al problema attuale delle spose bambine, come semplici citazioni da utilizzare insieme ai tanti luoghi comuni legati a paesi e culture. Anche l’ interazione con il pubblico attraverso la soluzione di quiz è superficiale e leggera e sembrerebbe indicare la modalità con cui oggi “si consuma” la conoscenza, in un mordi e fuggi del viaggiatore medio, tra stereotipi e banalità. Sembrerebbe una critica al nostro tempo, ma la critica rimane sulla soglia dell’ambiguità e potrebbe anche non essere colta, rivelando invece uno spettacolo d’intrattenimento senza pretese, adatto anche ad un pubblico di ragazzi.
Merita infine una citazione la performance di danza di Ilenia Romano, altro spettacolo selezionato dai visionari,
“Onewomanclichèshow” che riesce a comunicarci con ironia il disagio dei cliché del nostro vivere: quel” sono e non vorrei”, “vorrei ma non posso”.
INTERVISTA A LUCA RICCI DIRETTORE DI KILOWATT FESTIVAL 2016
Proponiamo questa bella intervista rilasciata dal Direttore Artistico del Kilowatt Festival Luca Ricci, che ci ha particolarmente colpito per i contenuti e la coerenza espressi.
Quando si organizza un Festival, nel facile intuibile vuoto istituzionale, si sa che si possono scegliere due strade, l’una non incompatibile con l’altra: la ricerca di sinergie con altre realtà culturali con obiettivi analoghi per creare rete e la sinergia con il territorio, cercando di creare comunità. Tu che hai imboccato entrambe le strade, ponendoti però da subito il problema della relazione con il territorio e che quindi attraverso questa idea nuova dei “visionari” hai poi avuto una visibilità pubblica istituzionale con oggi una rete importante internazionale, quanto ritieni importante oggi il “fare comunità” con il territorio e come si traduce?
Il territorio è sempre molto importante nella misura in cui si maneggiano finanziamenti pubblici, cosa che non si può dimenticare. E’ quindi necessario dialogare con il territorio in una condivisione di processi ed esperienze che arricchiscano di idee tanto gli artisti che il territorio. Il lavoro dei Festival di questi anni è andato in questa direzione migliorando la percezione del Festival da parte degli abitanti di San Sepolcro e dei paesi vicini, anche se so che ci sono ancora famiglie ( poche) che pur dichiarando di apprezzare il Festival non vengono.
Il titolo del Festival di quest’anno: “E’ tempo di risplendere”. Nella presentazione dichiari che hai deciso di farti illuminare dalla poesia e dalle “parole e immagini degli anni Sessanta, quando fiducia e bellezza accompagnavano la nostra crescita”. E’ però evidente che oggi abbiamo poco a che fare con la visione sociale di quegli anni. Come fare per collegare questi due mondi così diversi e che senso ha oggi farlo? Cos’è la poesia?
E’ fondamentale oggi pensare in positivo, anche insistendo sulle fratture, sulle criticità dei tempi nostri, ma anche aprire all’ ottimismo, illuminando una strada, offrendo delle visioni, senza forzare la mano ma imboccando delle traiettorie. L’arte come la poesia cerca la verità. La poesia è un allenamento allo scrivere bene, è una delle cose meno praticate del nostro tempo e per questo il nostro tempo è triste. E’ stata davvero una coincidenza la scelta dell’immagine del cartellone del Festival , tratta dagli scatti di Mario Giacomelli, poeta dell’immagine, che accompagna la poesia scelta di Amelia Rosselli ”E’ tempo di risplendere”. Sono entrambi degli anni ’60: la poesia del 1964 e l’immagine del 1961 e questo l’ho confrontato dopo la scelta. Vorrà dire qualcosa.
Oggi, in questo tessuto così disgregato, in questa continua ridefinizione del concetto di arte o forse di non definizione, in questa mancanza così importante di memoria storica e anche artistica, cosa è che ti guida nella scelta degli spettacoli e che ti fa dire: sì, questo è interessante e questo invece non lo è?
Cerco un equilibrio, una coerenza interna tra linguaggio e contenuti, ma anche una sua leggibilità, la presenza nello spettacolo di chiavi di lettura per la sua comprensione. Non mi piacciono i lavori oscuri ed ermetici che alla fine sono oscuri anche a chi li fa. Questo non significa che non si possa anche alzare il livello o la sfida per lo spettatore che comunque esercita un ruolo attivo nei confronti dello spettacolo.
Sei soddisfatto di quello che gira nel mercato dal punto di vista delle produzioni teatrali o cosa ti sembra che manchi oggi più di ieri o al contrario ci sia oggi più di ieri?
Rispetto a qualche anno fa oggi sento un ritorno al racconto, alla storia, al testo, al monologo. La cosa ha un aspetto ambivalente. Da un lato mi piace questa cosa, è bello sapere raccontare, c’è uno svolgimento temporale, dall’altro lato si sono perse le immagini, la multimedialità che crea suggestioni, evocazioni e credo che comunque questo sia legato ai minori costi.
A cosa serve un Festival?
Il Festival è il momento di emersione di alcuni processi lunghi, distinti, legati al territorio, che vedono la crescita di artisti e della comunità. Tieni presente che in questo festival convergono il frutto di residenze che hanno lavorato interattivamente con il territorio in momenti distinti e che ora restituiscono il lavoro svolto; si sono avviati percorsi, si sono veicolate idee, creati pensieri che hanno circolato nel territorio per essere restituiti in ambiti nazionali.
Che consigli daresti ad un direttore artistico che volesse intraprendere questa esperienza?
Uno fondamentale: non copiare quello che già c’è ma chiedersi qual è la sua urgenza, cosa vuole ottenere e provare ad ideare un percorso personale.
Quali sono secondo te le qualità che dovrebbe avere un bravo attore?
Il pudore, l’apertura all’altro e l’umiltà. L’accettare le proprie fragilità e mostrarle, il fare in modo che lo spettatore possa entrare in contatto con queste fragilità. E’ l’unico modo per un attore per essere autentico.
Emanuela Dal Pozzo