“Un giorno di regno”, seconda opera nella produzione verdiana, nota per il terribile fiasco che salutò la sua Prima Rappresentazione al Teatro alla Scala di Milano il 5 settembre 1840, è stata presentata dalla Fondazione Arena di Verona nell’ambito della Stagione 2012/2013 del Teatro Filarmonico, Stagione che meriterebbe peraltro da parte del pubblico uguale o maggiore attenzione di quella estiva, ben più celebrata , se non altro per dare peso e merito a certe coraggiose scelte che, tentando di scostarsi dal repertorio attuale, propongono titoli e partiture non di così scontato ascolto.
Lo stimolo per andare a teatro dovrebbe sempre essere dettato dalla conoscenza unita alla curiosità, è sicuramente bello sentire Tosca per la centesima volta, possiamo sentircene appagati o pacificati, ma scoprire l’incanto e la teatralità di una nuova partitura è molto più divertente, stimolante e moderno….provare per credere!
La veste con cui lo spettacolo si presentava al pubblico veronese nella serata del 5 marzo 2013 era quella che Pierluigi Pizzi pensò per il Teatro Regio di Parma , qui ripresa da Paolo Panizza, che si sposa perfettamente con lo spirito di questa giovane partitura.
L’ approccio scenico di Pizzi è, come sempre, raffinato e molto cesellato . Da navigato e valente uomo di teatro il regista sa come comporre una scena e come catturare l’attenzione del pubblico e qui definisce , con la semplicità rarerfatta che lo caratterizza, alcuni quadri scenicamente convincenti che spostano l’ambientazione dalle vicinanze di Brest ad una Parma di fantasia che vive della sua cultura e della sua gastronomia (che spesso in quelle terre camminano ancora a braccetto) imprigionata in un clima che, il più delle volte, rivela attraverso un velo malinconico di bruma nebbiosa, la sua più intima natura.
Il gioco sui caratteri sarebbe raffinato , anche se in realtà nulla di nuovo registicamente parlando accade in palcoscenico, ma una ripresa, per funzionare veramente, dovrebbe essere incisa e cesellata con cura quanto l’originale e qui l’insieme sembrava , pur curato e attento nella selezione e cura dei movimenti, un pò troppo approssimativo e poco definito, questo è un problema però che è comune a tutte le riprese, con poche eccezioni.
L’impianto scenico risultava comunque assai gradevole e garbato, trasudando ironia (divertentissima la grande cucina dove troneggiano forme di parmigiano e prosciutti) e stigmatizzando l’ampollosità un pò polverosa del libretto che, certo di mano eccellente ( addirittura il grande Felice Romani) non crea nulla di nuovo ricalcando vecchi stilemi e codici rossiniani.
Impegnati in palcoscenico, i giovani dell’Accademia del Teatro alla Scala nel complesso si sono ben disimpegnati nei rispettivi ruoli.
Mikheil Kiria (Cavalier Belfiore), pur impostato in un canto di forza che spesso gli impediva la naturalezza espressiva che il ruolo comporta, mostrava un timbro interressante e robusto e sostanzialmente ben definiva scenicamente il suo personaggio così come Alice Quintavalla, (Marchesa del Poggio) dotata di un’ interessante vocalità cui la giovane età e lo studio porteranno ancor maggior sicurezza tecnica (specie nel registro acuto dove il suono risultava spesso aperto) ed espressiva.
Ottima sotto ogni profilo Letitia Vitelaru (Giulietta) che combinava sapientemente un timbro gradevole ed espressivo con giusta musicalità ed accento mentre il suo fidanzato Alessandro Scotto di Luzio (Edoardo) sicuramente si distingueva per la vocalità interessante e musicale, anche se troppo debole per il ruolo (unico in partitura a racchiudere al suo interno qualche giovanile prodromo verdiano) che avrebbe forse richiesto una timbrica differente.
Problema generale in palcoscenico era comunque una disparità di piani sonori, timbrici e di volumi che spesso sembravano danneggiare questo o quell’interprete ma che in realtà dipendevano probabilmente da una troppo supeficiale impostazione originaria.
Il problema infatti si riscontrava anche nella buona prova di Simon Lim (Barone di Kelbar) e Filippo Fontana (Signor La Rocca) che risolvevano i ripettivi ruoli con giusta professionalità , musicalità e senso del teatro, pur soffrendo nei duetti di una disarmonia timbrica di fondo.
Completavano il cast Ian Shin (Conte Ivrea) e Carlos Cardoso (Delmonte).
Il M° Stefano Ranzani alla guida dell’Orchestra dell’Arena di Verona dirigeva sostanzialmente bene, con giusta espressività ed uguale armonia, pur dimenticando troppo spesso che sul palcoscenico aveva dei giovani artisti da seguire e con cui collaborare per la realizzazione dello spettacolo.
Ma sull’unità e la collaborazione tra le varie forze artistiche in teatro parlerò probabilmente in altra sede perchè il problema si sta estendendo a macchia d’olio ormai.
Sostanzialmente corretto il Coro della Fondazione diretto dal M° Armando Tasso.
Una platea non pienissima , mostrava di gradire lo spettacolo che offriva, nel suo insieme, una bella occasione per ascoltare questo titolo verdiano così bistrattato dalla cattiva sorte e che invece, ad un’attenta lettura, rivela più di un motivo d’interesse.
Silvia Campana