FESTIVAL DI SANTARCANGELO 2012

DALL’ALTRA PARTE

La televisione, mio caro Daniel, è l’Anticristo. Mi creda, nel giro di tre o quattro generazioni la gente non sarà più nemmeno in grado di scoreggiare da sola e l’essere umano regredirà all’età della pietra, alla barbarie medievale, a uno stadio che la lumaca aveva già superato all’epoca del pleistocene. Il mondo non verrà distrutto da una bomba atomica, come dicono i giornali,ma da una risata, da un eccesso di banalità che trasformerà la realtà in una barzelletta di pessimo gusto”

( Da “L’ombra del vento” di Carlos Luis Zafòn)

“ Abbiamo la convinzione che Santarcangelo non sia una vetrina ma un luogo di esperienza artistica” cita la presentazione del programma e aggiunge:” Soprattutto si sono immaginati molti progetti fuori formato rispetto al teatro, che sconfinano con semplicità e con spudoratezza nell’arte, nella scrittura, nel disegno e nel cinema, e si sono coinvolti bambini, anziani, cittadini e stranieri in creazioni di artisti capaci di operare un cortocircuito tra la scena e la vita, lontano da ogni forma televisiva e da ogni narcisismo, a ricordarci come l’arte sia un luogo di distillazione del reale, uno spazio dove è possibile esercitare uno sguardo di inesperienza…..ed è ormai uno dei pochi festival in Italia a continuare ad investire così tanto su momenti di riflessione, dialogo, approfondimento, a tentare, come si può, di rimettere in circolo pensiero, sguardi, discorsi, nella convinzione che oggi più che mai sia prioritaria la necessità di sviluppare un pensiero critico sul mondo e sulle cose.”

DALLA PARTE DEGLI SPETTATORI

Che quest’anno il Festival di Teatro di Santarcangelo di Romagna sia stato restituito alle piazze, è vero solo in parte. Si sono eclissati i tempi gloriosi in cui- ma parliamo di qualche decina di anni fa- ogni slargo oltre una gradinata, ogni piazzola protetta che permettesse un agglomerarsi naturale di pubblico, o i numerosi spazi voluti e costruiti ad hoc, interni ed esterni,venivano occupati da artisti festosi, che soli, in coppia o in gruppo avevano l’opportunità di esibirsi di fronte ad un pubblico ibrido non pagante, lì per caso o per l’occasione. A volte si trattava di esibizioni poetiche, clownerie ma non solo, di grande capacità espressiva, giocate sul filo dell’ironia e della comunicazione non verbale, capaci di catturare l’attenzione di grandi e piccini, una Banda Osiris all’epoca esordiente, un Mago Bustric altrettanto sconosciuto ai più e solitari menestrelli arrivati dal nord Europa capaci di interagire con enormi carillon ed oggetti semplici e magici; altre di giochi d’improvvisazione e duelli di ruoli, agiti secondo precisissime regole teatrali, ammiccanti il teatro di ricerca dell’epoca, indagatore sulla costruzione del personaggio e curioso sul confine tra verità e finzione; altre ancora di spettacoli capaci di lasciare un segno a lungo nel tempo.

Quei tempi sono finiti. E’ cambiato il contesto o è cambiata la direzione? O contesto e direzione sono solo due facce della stessa medaglia?

Fatto sta che la quarantaduesima edizione 13-22 luglio 2012 di Santarcangelo- Festival Internazionale del Teatro in Piazza vede restituita alla piazza solo una piccola parte dell’intero programma, che, peraltro, più che muoversi su un fronte teatrale, abdica abbondantemente ai linguaggi di confine- tendenza generalizzata, non solo in questo Festival e giustificata con la contaminazione dei linguaggi-: musica, cinema, pittura, investendo in gioventù e laboratori.

In compenso si interroga sugli spazi urbani e li reinventa in funzione di ipotetici spettatori, anche se alcune proposte suscitano più perplessità che curiosità, come quella di Strasse-Drive_in 3 (Santarcangelo) studio per uno spettatore, in cui individualmente gli spettatori vengono accompagnati attraverso le periferie del paese, ad incontrare una realtà che appare ai più ovvia e scontata, anche se nelle intenzioni degli ideatori Francesca De Isabella e Sara Leghissa “ lo spazio urbano diventa improvvisamente spazio scenico, contenitore e produttore di segni e tempi possibili”. Ci si potrebbe chiedere quanto sono costati questi progetti “sperimentali”,più da segnalare come “manifesto d’intenti” che come capacità di ricaduta ( anche per il numero esiguo di persone capaci di coinvolgere), perchè non dimentichiamolo- e non dimentichiamolo mai- i finanziamenti per la cultura, patrimonio pubblico, sono quelli regionali sì, ma dei cittadini.

Si potrebbe obiettare che il finanziamento per l’”effimero”, quando l’effimero diventa motivato percorso di ricerca in buona fede, e bisognerebbe poterlo dimostrare o quantomeno controllare- è un valore aggiunto per una società culturalmente in crescita. Né vorremmo ovviamente scoraggiare iniziative culturali di così largo respiro, come questa.

Ai posteri l’ardua sentenza, o ai dibattiti in corso.

Quando poi il Festival occupa l’enorme piazza principale del paese, Piazza Ganganelli, quasi si scusa per il disturbo arrecato, ritagliando, per i propri eventi, piccoli angoli delimitati, attrezzati da bancali appositamente trattati e utilizzati come sedili, pratici ma scomodi se necessari per tempi lunghi, atti a contenere poco più che un centinaio di persone.

Poca fiducia nell’attenzione dello spettatore di oggi? Consapevolezza che le proposte siano appetibili solo per gli addetti ai lavori? Concessioni regalo anche per chi non è del mestiere, a dimostrazione che nonostante tutto questo è un festival anche per la gente comune? O semplici difficoltà organizzative e povertà di risorse economiche?

Senza dubbio si può ipotizzare una sottovalutazione dell’interesse del pubblico, se non altro in fatto di numeri. Gli spettacoli sono spesso allestiti, anche al chiuso, in spazi ristretti ed esauriti al loro primo comparire in tutte le repliche, nonostante alcuni di essi non meritino troppa attenzione. Forse è difficile che le scelte artistiche accontentino tutti, ma ci viene spontaneo chiederci se alcune di esse siano state dettate da facili opportunità “sottomano”, da dichiarazioni d’intenti non approfondite e vagliate, da un aspetto d’impatto di apparente rottura, più però vicino al mondo della performance che del teatro, riflessioni che in itinere e a posteriori ci sollecitano una implicita domanda: cosa s’intende per teatro di ricerca? Quali sono i requisiti che lo rendono tale? Esiste ancora, oggi, una specificità teatrale distinta da quella artistica più generale o il teatro di frontiera scivola verso performances multidisciplinari, perdendo la propria autonomia linguistica?

C’è subito da dire che quest’anno il Festival, sotto la nuova direzione artistica di Silvia Bottiroli, si distingue per almeno tre ragioni dichiarate: non vuole essere una vetrina, non vuole esaurirsi in dieci giorni, viene restituito ( seppur parzialmente) alla piazza. E c’è anche d’aggiungere che, nonostante le critiche,che ovviamente sono solo un punto di vista soggettivo e che costruttivamente siamo sicuri spingeranno verso un miglioramento negli anni futuri, sembra accolto positivamente dal pubblico complessivo, per quel poco che ha avuto modo di vedere in piazza, mentre gli affezionati- cogliendo gli umori per via- sembrano prediligere questa edizione rispetto alle ultime precedenti.

Il progetto è triennale, si svolge nell’anno solare ospitando artisti e “spettatori speciali”, è accompagnato da presentazione di libri, conferenze/interviste, laboratori e spettatori itineranti verso i teatri della regione.

Ad una sommaria lettura degli eventi in programma nel Festival, si ha la sensazione che di teatro in senso stretto, inteso sia come rappresentazione che come dimostrazione di lavoro, non ci sia molto. Mancano le “produzioni ossatura”, quelle che un tempo sapevano reggere il confronto, capaci di dare la svolta , di indicare la strada, che sapevano unire tecnica e poetica in prodotti artistici articolati, capaci di colpire l’immaginario dello spettatore, per l’ immediatezza del linguaggio, complesso sì, ma fresco ed emozionante, ad esclusione di rare piacevoli sorprese: l’ inaspettato successo dello spettacolo del duo riminese Quotidiana.com “ Grattati e vinci” e l’attesissimo Karamazov di Cesar Brie. Peccato che il primo si sia svolto in luogo chiuso e poco comodo, accessibile solo ad un pubblico di nicchia, scelta giustificabile visto l’intimismo insito nello spettacolo. Ma per le problematiche affrontate e la capacità degli attori di mantenere sempre quella giusta tensione capace di attento ascolto, avrebbe potuto essere un “regalo” intelligente capace di risvegliare le coscienze, forse. Insomma sarebbe stata una bella scommessa quella di proporlo in piazza, per osservarne l’accoglienza di un pubblico di meno addetti ai lavori.

Mancano anche le piacevoli pillole comunicative, che senza intellettualistiche pretese, arrivano al cuore delle persone.

Oggi quella straordinaria carica che portava il teatro davvero a misurarsi nelle piazze, nel contatto diretto con la gente, a verificare la capacità comunicativa dei linguaggi, sembra perdersi nei dettagli.

I più che giustificati interrogativi sugli elementi fondanti il teatro: lo spazio, l’attore, lo spettatore, il linguaggio, sembrano portare alla deriva. I tanti punti diversi d’osservazione del dettaglio aprono sì , forse, a nuove frontiere, ma rimandano ad un domani, speriamo non troppo lontano, la ricomposizione del tutto.

In definitiva si ha la sensazione che di teatro se ne parli, più che se ne faccia.

Ma mancano soprattutto gli attori, i capiscuola, seppur citati in conferenze predisposte per l’occasione o riproposti in chiave cinematografica, anche questi più artisti in senso lato che “animali da palcoscenico”, da Fellini a Carmelo Bene a Pina Bausch, nomi che certamente hanno segnato l’evoluzione del linguaggio, ma che oggi lasciano un’eredità più che una nuova direzione da perseguire. Poi esiste qualche” sopravvissuto”come Cesar Brie, o il Theatre du Soleil, più impegnati nei laboratori per i giovani che in significative produzioni, che, quando ci sono, sono costruite ad hoc, in una logica di investimento per una futura “classe artistica ”. ( Cesar Brie- Karamazov, Teatro Valdoca- Le case dei sogni di John Cage- seminario residenziale per attori e danzatori, Theatre du Soleil- laboratorio l’immaginazione, il corpo, il cuore con Olivia Corsini e Serge Nicolai) nonostante, e lo sottolineiamo, la loro importante e irrinunciabile presenza qui, a qualificare un festival che diversamente sarebbe stato scarno. Lo spettacolo Karamazov di Cesar Brie è uno spettacolo chiave per comprendere la forza espressiva di un filone teatrale che ha segnato la storia del teatro di ricerca e il Theatre du soleil non sarebbe potuto essere presente con le proprie produzioni di 75 attori e impianti scenografici, economicamente troppo impegnativi e si è optato intelligentemente per una ripresa dello spettacolo in chiave cinematografica aperta al pubblico.

Abbondano le performances tra musica e danza, tra voce e corpo tra cui segnaliamo Laboratorio sonoro di Fuocofatuo- concerto/spettacolo con oggetti di uso comune in condizione di instabilità fisica e calore, Francesco Giomi/ Tempo reale- sovrapposizione di una partitura di John Cage con la mappa della piazza di Santarcangelo per una performance musicale sorprendente, Simone Marzocchi e Sara Masotti in Petra genetrix, ricerca vocale dal suono animale, umano preverbale e industriale, Gruppo Nanou in Sport, analisi delle prestazioni di un atleta, condotti a volte da gruppi o singoli artisti di breve storia alle spalle, forse troppo breve per porli alla ribalta di un Festival di questa portata, a meno che il Festival non intenda essere oggi un semplice catalizzatore di umori, di spinte, di energie colte al loro apparire.

Ma possibile che il panorama nazionale ed internazionale non offra qualcosa di più sostanzioso ed appetibile?

Forse è un momento di transizione, di riflessione, di crisi complessiva. Una crisi che colpisce tanto l’attore che lo spettatore. Viene da chiedersi se non sia l’assenza dello spettatore oggi a mettere davvero in crisi l’attore: uno spettatore che deve essere sempre più inseguito, sedotto, soggiogato, coinvolto. Così l’attore, frustrato nel suo “ dare”, o forse, oggi, incapace di comunicare in modo significativo, diventa colui che passa il testimone allo spettatore, promuovendolo attore, come succede nello spettacolo di Richard Maxwell/ New York City Players- Ads (Santarcangelo), nel quale il regista, riadattando un’esperienza già fatta a New York, dà la parola ad alcuni cittadini di Santarcangelo che si alternano sul palcoscenico- ma si capisce che sono proiezioni cinematografiche dall’effetto sorprendentemente tridimensionale- per rispondere a due domande: 1- qual’è per te il senso della vita? 2- qual’è la cosa più importante?

Una tendenza, quella di coinvolgere direttamente gli spettatori, che sappiamo provenire anche da altri fronti, sempre teatrali, come desiderio forse di “scuotere” la noia e l’apatia di un pubblico sempre meno reattivo e che viene quindi sollecitato sensorialmente direttamente. Ma potrebbe rivelarsi una “furba” scappatoia capace di esaurirsi finito lo spettacolo e che, ipotizziamo, difficilmente appassionerà al teatro, diventato ancora una volta oggetto di facile consumo.

Nelle recensioni successive abbiamo selezionato , tra quanto visto, ciò, che sotto un’ottica più tradizionalmente teatrale, ci è parso significativo.

PILLOLE DI OTTIMISMO

La condizione del meraviglioso è il concreto” Theatre du soleil

Questo mi dice Olivia Corsini quando, dopo la prova aperta al pubblico, conclusiva del laboratorio “L’immaginazione, il corpo, il cuore” tenuto da Olivia Corsini e Serge Nicolai ,attori del Theatre du soleil, le chiedo una massima, una citazione o una riflessione, che sintetizzi oggi il pensiero chiave del teatro del Theatre du soleil. La massima non è mia, si affretta a precisare, ma di Ariane Mnouchkine, la regista della Compagnia ,che la pronuncia spesso durante le prove degli spettacoli.

Immediatamente la comprendo, avendo assistito al loro lavoro di scavo, di analisi, di lettura del gesto e dell’intenzione con gli attori del laboratorio: un linguaggio che conosco e che riprende i fili del passato, quando lo studio e la ricerca teatrale non potevano prescindere dalla conoscenza profonda di se stessi.

Purtroppo quando siete in scena tutti i vostri difetti diventano visibili” spiega agli attori Nicolai durante l’allenamento, aggiungendo:” Lo so, è difficile ma necessario per noi che abbiamo scelto di fare gli attori e di “dare” agli altri nel farlo” mentre gli attori si sforzano di improvvisare gesti credibili, sguardi giustificati, intenzioni rivelate, movimenti precisi per esprimere situazioni concrete ma teatrali, perchè il teatro va distinto dalla quotidianità, ha un linguaggio a sé.

Esprimo la mia soddisfazione per questo lavoro così importante che cerca di mettere in contatto l’attore con se stesso, in una riappropriazione di consapevolezza oggi più che mai necessaria, anche a prescindere dal teatro e Olivia Corsini esclama soddisfatta: “Ebbene sì, esistiamo ancora!”. Poi mi

confida: “Mi sento distante da quella parte di teatro che si perde in intellettualismi, dimenticando la dimensione umana e concreta della nostra condizione.

Tiro un respiro di sollievo. Forse il teatro sonnecchia, è momentaneamente sospeso, ma non è ancora morto.

Bisogna liberare gli artisti dagli Enti, ricontrattare le condizioni per esistere, riconquistare il pubblico, non il pubblico in generale ma il tuo pubblico, quello che ti sceglie perchè riconosce in te il suo alimento per l’animo”- Cesar Brie

E’ quanto dichiara Cesar Brie durante la presentazione del suo libro”L’Iliade del teatro de Los Andes”, parlando della condizione del teatro oggi.

Quando lo avvicino per una breve intervista lo riconferma. “ Sento il bisogno” dice, “ di riconfrontarmi con il pubblico in piazza e dissento da quanti pensano che questo non sia importante”.

Comprendo che anche per lui la crisi dell’attore è strettamente legata a quella dello spettatore.

Gli chiedo quali sono ora i suoi progetti. Mi parla dei progetti immediati: la tourneè in Argentina con i giovani attori dello spettacolo” karamazov”.

Al momento dichiara di volersi dedicare ai giovani, alla loro formazione attoriale, quasi volesse passare il testimone in una consapevolezza di precarietà esistenziale, ma ho la consapevolezza della sua versatilità, dimostrata in tanti cambi di rotta per perseguire il suo obiettivo di ricerca. Preferisco non approfondire e non lanciare il mio sguardo in un futuro troppo lontano.

Gli chiedo della crisi del teatro oggi in Italia.

Mi dice che è maggiormente preoccupato della crisi generale, quella che attraversa l’Europa, e rispetto alla quale è fortemente pessimista. “Per quel che riguarda il teatro sono più ottimista” mi dice.” Abbiamo già toccato il fondo e ora un po’ alla volta risaliremo.”

KARAMAZOV

Il pubblico ha già occupato i bancali/sedili posizionati in piazza Ganganelli davanti al palcoscenico. Manca più di un’ora allo spettacolo”Karamazov”, in scena il 15 luglio 2012 alle 21,30, ma la percezione della pochezza dei posti è chiara ( e per noi anche incomprensibile). Lo spazio della platea, ritaglio dell’immensa piazza, è delimitato da vasi con piante, mentre altre panchine messe a gradinata dominano a semicerchio la platea. Tutt’intorno il palco è transennato.

Così gli spettatori previdenti, già seduti da tempo, possono seguire le ultime prove tecniche degli attori che li vedrà impegnati in due ore intense di spettacolo.

Per tutto il tempo della sua durata un folto pubblico lo seguirà in piedi, in assoluto silenzio, accalcato alle transenne.

Cesar Brie, cui si deve l’adattamento e la regia dello spettacolo, non ha bisogno di presentazioni.

A Santarcangelo è di casa. Da molti anni mantiene uno stretto rapporto con il Festival. E’ uno dei punti di riferimento internazionali più importanti del teatro di ricerca, in una evoluzione costante e fedele. “La fedeltà a se stessi” dirà poi in occasione della presentazione del suo libro/documento “L’Iliade del Teatro de Los Andesè la cosa più importante che insegno agli attori, aldilà delle tecniche, dell’allenamento e delle soluzioni artistiche personali.”

La sua impronta si riconosce immediatamente, per quanti già da anni lo seguono o hanno avuto occasione di assistere ai suoi spettacoli, tanto nella essenzialità efficacemente espressiva di regia, quanto nella scelta dei materiali scenografici , “poveri” come vuole la tradizione di un teatro che fa del gesto e dell’azione scenica il perno comunicativo, ma al contempo straordinariamente mutevoli. Le panche in legno vengono rovesciate e costringono gli attori a recitare apparentemente seduti ma in realtà sdraiati sul pavimento, vengono sollevate a formare un piano inclinato lungo il quale scivolano i bicchieri colmi di vino e attorno al quale i personaggi altercano e si rincorrono, infine diventano le bare dei bambini a celebrare la tragicità del senso della storia.

Sul fondo una fila di attaccapanni legati ad un filo, apparentemente lì con gli abiti di scena, prenderanno vita nel momento in cui i personaggi li indosseranno, simili a manichini mossi da altrui volere. Una decina gli attori ad impersonare i ruoli più significativi del romanzo, bravi e ben diretti, scelti dopo un corso di formazione, a seguito di un progetto prodotto da Emilia Romagna Teatro: oltre a Cesar Brie, Mia Fabbri, Daniele Cavone Felicioni, Gabriele Ciavarra, Clelia Cicero, Manuela De Meo, Giacomo Ferraù, Vincenzo Occhionero, Pietro Traldi, Adalgisa Vavassori.

Splendidamente d’impatto il ruolo di Brie, attore capace come pochissimi di unire verità e finzione e di creare un’intimità con lo spettatore al punto di commuoverlo.

Coinvolgenti le musiche originali di Pablo Brie e Pietro Traldi, eseguite in scena anche dagli stessi attori che si sono alternati in diversi strumenti musicali, seguiti dalla maestra di musica Paola Sabbatani. Piacevoli i costumi ideati da Mia Fabbri e realizzati da Giada Fornaciari

Molto espressivi i pupazzi dei bambini di Tiziano Fario.

Non ci soffermiamo sulla complessa struttura drammaturgica dell’allestimento, tratta dal poderoso romanzo “ I fratelli karamazov” di Fedor Dostoevskij .

Di certo la sola sua analisi richiederebbe un approfondimento lungo e accurato, o la pubblicazione di un libro a se stante. Possiamo dire che, secondo Brie, l’ultimo romanzo di Dostoevskij, finito qualche mese prima della morte, esprime la summa dei temi che hanno ossessionato lo scrittore russo: la fede,il vizio, l’amore, la passione e la giustizia, che quindi vengono rielaborati e messi in luce nello spettacolo che non risparmia nemmeno i fondamentalismi religiosi e le critiche ai sistemi sociali totalitari.

La toccante chiusura dello spettacolo invita gli spettatori alla memoria della propria infanzia, quale garanzia di purezza d’animo. E’ lo stesso invito che Brie, citando Dostoievskij, antepone allo spettacolo: “ Guardate questo spettacolo con occhi puri”.

Il tema dell’infanzia e delle violenze subite dai bambini è trasversale a tutto lo spettacolo.

Viene ricordato fin dall’inizio, da ciò che sembra un disturbo fonico fastidioso e persistente e che nel corso dello spettacolo si comprende essere il lamento dei bambini.

LA PRESENTAZIONE DEL LIBRO”L’ILIADE DE LOS ANDES”

Più che un libro è una testimonianza, pregna e toccante, una documentazione di esperienza di lavoro corredata da immagini, uno spettacolo quello dell’Iliade, successo internazionale di dieci anni fa firmato da Cesar Brie con il Teatro de Los Andes, che viene riletto attraverso le vicende delle dittature in America Latina.

Altrettanto toccante l’incontro con l’artista di fronte ad una platea attenta e motivata, presentato da Fernando Marchiori, profondo conoscitore del regista ed attore argentino, e già autore di studi su di lui, che ne ha curato il volume, raccogliendone riflessioni critiche e materiali inediti.

Il lungo intervento di Marchiori offre una panoramica della complessa vita dell’artista, divisa tra Italia, Bolivia e Argentina, attento testimone di scomode realtà sociali e a volte in fuga, capace di ricominciare da capo ogni volta un teatro povero, essenziale, a stretto contatto con le popolazioni indigenti, ma attuale e profondamente comunicativo, interprete delle realtà più drammatiche: i desaparecidos, le torture, le esecuzioni di massa, le fosse comuni, le stragi degli innocenti. Un teatro impegnato nei contenuti e fortemente d’impatto nella ricerca espressiva. L’essenzialità del gesto, la verità della parola, ogni volta la ricerca della sintesi necessaria per ottenere la maggiore forza comunicativa: una ricerca incessante, a tratti dolorosa, “perchè la vita “ come dirà nella presentazione Cesar Brie “ non ti concede respiro. E’ un incessante divenire che ti spinge a proseguire e non puoi farne a meno.”

Brie invita il pubblico presente a visionare alcune immagini, più eloquenti di qualsiasi discorso.

E’ uno spezzone di film in cui compaiono gli attori di los Andes, nei propri allenamenti e in scene chiave, gli attori che hanno accompagnato il suo percorso per 20 anni e dai quali ora si è separato.

“ Pari a 70 anni di matrimonio”, dice,” da ricordare con piacere, ma senza dimenticarne la pesantezza quotidiana del vivere” perchè Los Andes è una” comune”, un luogo di vita di ricerca permanente, cui tutto il teatro di ricerca ha guardato con curiosità e interesse, un’esperienza attiva dal 91, anno in cui Cesar Brie la fonda.

Questa comunità teatrale internazionale ha portato in giro spettacoli che, partendo da testi classici vengono calati profondamente nell’attualità: da Colòn (1992) a Ubu in Bolivia (1994), da I sandali del tempo (1995) a L’Iliade (2000), da Dentro un sole giallo (2004) a Fragile(2005), da Otra vez Marcedo (2006) alla recente Odissea (2009).

Il film “Hacienda del teatro”, che completa il libro, del regista svizzero Reinhard Manz documenta le diverse fasi dell’allestimento, le ricerche, gli allenamenti, le prove, il montaggio.

Cesar Brie nasce a Buenos Aires. A 18 anni è costretto a lasciare l’Argentina ed arriva in Italia con la Comuna Baires. Nel 1975 fonda a Milano il Tupac Amaru con cui metterà in scena “A rincorrere il sole” (1979). Dal 1981 al 1990 è in Danimarca con Iben Nagel Rasmussen nel gruppo Farfa e poi nell’Odin Teatret, come attore, autore e regista. Lo spettacolo, tra gli altri ,“Talabot” del 1988 ha la regia di Eugenio Barba. Rimane in Italia fino al 1991, anno in cui fonda in Bolivia il Teatro de los Andes che lo assorbirà per il ventennio successivo.

GRATTATI E VINCI

Forse la vera rivelazione del Festival è lo spettacolo “Grattati e vinci” di Quotidiana.com, duo riminese fondato nel 2003 da Roberto Scappin e Paola Vannoni, attori di questa messa in scena che va a concludere gli “esercizi di condizione umana” con il 3° episodio della Trilogia dell’inesistente dopo i primi due: Tragedia tutta esteriore (2008) e Sembra ma non soffro (2010).

Un allestimento in sordina, quasi sussurrato, in un luogo chiuso periferico a Santarcangelo- bisogna cercarlo ed arrivarci in auto- ma che lancia il suo messaggio chiaro, sintesi delle inquietudini del nostro tempo: la crisi del teatro, dello spettatore, del vivere in senso complessivo.

Lo spettacolo, che apparentemente descrive il vuoto interiore dei due protagonisti, incapaci di reagire ad una noia profonda, che sembra azzerare slanci e velleità di cambiamento, in realtà è un’indagine attenta e minuziosa dello scorrere del pensiero nel suo farsi. I due attori, uno di fronte all’altro, colti nella quotidianità di una stanza dove si indovina abitano, ci propongono un intelligente, ironico, divertente, e a tratti profondo e cinico dialogo a due, capace di mettere a nudo le dinamiche della conversazione. Un dialogo che, tra pause significative e battute serrate, affronta le tematiche più disparate nel tentativo di dare un senso al vivere: dall’amore alla preoccupazione per il futuro, dalle pensioni ad un piano di suicidio collettivo, fino alla progettazione di un’associazione armata a delinquere. Nonostante la pregnanza drammatica delle conseguenze, se agite, tutto rimane sospeso in un velo immaginifico, metafora dell’incapacità, o forse dell’inutilità, di qualsiasi azione, con risvolti umoristici imprevisti. Ciò che stupisce positivamente nello spettacolo è l’intelligenza del testo, che mai si lascia sedurre dalla banalità e che trova sempre un’impennata, una nuova direzione di sviluppo. Altrettanto efficace la recitazione, sempre aderente e convincente, incurante quasi di un pubblico complice in ascolto e catturato da subito all’interno di un cerchio magico.

Lo spettacolo non si chiude. Sull’emblematica ultima battuta di lei “E’ la morte del teatro”, quando lui in assenza di altre idee si cala i pantaloni, la piece si sospende, rimandando il finale al pubblico, cui i due bravi attori lanciano la palla, chiedendo la collaborazione di due spettatori per chiudere lo spettacolo. Una chiusura significativa, a dimostrazione dell’ovvietà del parallelismo vita/ teatro e attore/spettatore, entrambi intrappolati in un contesto demotivante e in cerca di una via d’uscita.

In un clima di intimità collettiva la sfida non può non essere accolta. Due spettatori entrano nel palcoscenico. Si capisce da subito che non c’è imbarazzo, né distanza e il teatro/vita ricomincia.

L’UOMO DELLA SABBIA- CAPRICCIO ALLA MANIERA DI HOFFMANN

Questo capriccio è, prima di tutto, un labirinto. E’ un gioco di scatole cinesi, una narrazione senza fine cui perdersi. E’ il tableau vivant di una natura morta.” cita la locandina della presentazione dello spettacolo.

Lo spettacolo viene allestito al chiuso, nel Supercinema di Santarcangelo venerdì 13, sabato 14 e lunedì 16 luglio 2012. Scritto da Consuelo Battiston, Gianni Farina e Alessandro Miele é interpretato dagli attori Tamara Balducci, Consuelo Battiston, Tolja Djokovic, Francesco Ferri, Alessandro Miele, Mauro Milone, per la regia di Gianni Farina, i costumi di Elisa Alberghi, le musiche di Stefano De Ponti e le luci e la direzione tecnica di Robert John Resteghini.

Quadri scenici di una cura maniacale presi nel loro divenire, in un’ambientazione ottocentesca, apparentemente senza un senso che li giustifichi, se non la riproposizione di una quotidianità che si ripete all’infinito, con piccole variazioni provocate, che ne alterano il contesto ma non il senso.

Lo spettacolo ha l’aspetto di un gioco inquietante che, se da un lato svela la banale esteriorità dei dialoghi nella loro assillante e continua riproposizione esattamente identica, dall’altro lato li contamina con piccoli imprevisti: apparizione o sparizione di oggetti, cambio di posizione degli interlocutori, sostituzione dei personaggi, arrivo improvviso di un soggetto esterno quale accadimento accidentale.

Nel racconto di Hoffmann i personaggi sfumano nel grigio panneggio della quotidianità, come riflessi automatici di uno stesso individuo”cita ancora la locandina.

La sensazione finale è quella di una perdita di realtà, ma soprattutto di senso, quasi i dialoghi diventassero riproposizioni meccaniche incapaci di incidere realmente sugli eventi: una storia già tracciata e permanente di cui non si comprende l’inizio né la fine, mentre fuori incombe” l’uomo della sabbia”, colui che, nell’immaginario infantile, ruba gli occhi ai bambini.

E’ una presenza sottile e inquietante che giustifica il Fantastico, il Perturbante e il Bizzarro e che cattura a tratti la mente del giovane protagonista, lo studente Nataniele, in un’angoscia interiore nevrotica in cui desiderio e azione non riescono mai ad incontrarsi.

Nonostante l’interesse e l’apprezzamento del pubblico, ci sarebbe piaciuto che questo “sconosciuto incombente”venisse maggiormente approfondito nello spettacolo, che a volte si perde, ma forse volutamente, in esercizi di stile, a sottolineare tanto la vacuità della comunicazione quanto la circolarità del vivere, in un perenne ed immobile tempo sospeso.

Lo spettacolo, prodotto da Emilia Romagna Teatro Fondazione, Festival delle Colline Torinesi, Programma Cultura dell’Unione Europea nell’ambito del Progetto Prospero, è della Compagnia Menoventi, già premiata nel 2011con il Premio Rete Critica e nel 2012 con il Premio Hystrio-Castel dei Mondi e il Premio “Lo Straniero”.

Emanuela Dal Pozzo

 

 

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