Un museo, durante una fase di allestimento e restauro, entro il quale si muovono operai occupati nelle loro specifiche mansioni tecniche, faceva da sfondo a questo, neanche troppo singolare, allestimento de “I Capuleti e i Montecchi” di V. Bellini, riproposto dalla Fondazione Arena di Verona al Teatro Filarmonico nel corso della corrente stagione.
La regia firmata da Arnaud Bernard e presentata in prima nello stesso spazio pochi anni or sono, si presentava del medesimo statico immobilismo concettuale ed ideologico che ne aveva contraddistinta la prima rappresentazione, sorta in coproduzione con il Teatro La Fenice di Venezia e Greek National Opera.
Cristallizzare la tragica vicenda, peraltro ampiamente rimaneggiata da Felice Romani, in una serie di ‘tableau vivant’ può risultare certo superficialmente decorativo, per un certo gusto, ma poco o nulla si interfaccia con il lirismo di una partitura che vive di intense emozioni e necessiterebbe più di sobrietà espressiva che di facile descrittivismo.
Bisogna sottolineare altresì quanto la scena finale, nella quale tutti i protagonisti del dramma restano intrappolati all’interno di una cornice, visualizzandosi come un quadro del Primo Romanticismo, sortisse un suo gradevole effetto teatrale, pur risultando completamente avulsa dal contesto in precedenza creato, in cui restauratori e cavalletti di restauro si alternavano ai sospiri degli sventurati amanti veronesi.
Il cast si presentava abbastanza omogeneo.
Irina Lungu, ormai avviatasi verso una vocalità decisamente lirica, pur con qualche apertura di troppo nel registro acuto che a tratti risultava poco rotondo e un po’ fisso nell’emissione, interpretava assai bene il ruolo di Giulietta, non dimenticando il canto sul fiato, l’espressività e quel particolare colore dell’anima, in Bellini così’ necessario, dunque nel suo complesso risultava convincente sotto ogni profilo.
Non particolarmente adatta la vocalità, pur interessante di per se stessa, del mezzosoprano Aya Wakizono al ruolo di Romeo nel quale era impegnata e questo a causa di una timbrica che trova nella mancanza di rotondità nel registro grave una delle sue caratteristiche. Detto questo il personaggio è stato affrontato, nel suo complesso, con giusta partecipazione e teatralità. Interessante il tenore Shalva Mukeria (Tebaldo) che ha messo in evidenza una giusta vocalità, corretta per estensione e fraseggio ma anche una certa discontinuità nella prestazione che ne ha, in parte, danneggiato la resa artistica.
Bene il giovane basso Romano Dal Zovo che si è ben disimpegnato nel ruolo di Lorenzo mettendo in evidenza un timbro personale e una corretta musicalità e professionalmente ben interpretato il Capellio di Luiz-Ottavio Faria.
Il Maestro Fabrizio Maria Carminati, alla guida dell’Orchestra della Fondazione Arena, dirigeva con monotonia non soffermandosi sulle infinite sfumature ed intimità di fraseggio della partitura ma limitandosi ad una lettura secca e priva di espressività.
Una sala gremita ed un bel successo di pubblico salutava interpreti e Direttore al termine della recita.
Verona 26/02/2017
Silvia Campana