“IL PREZZO” AL NUOVO DI VERONA. RECENSIONE.

PRICE_2_ph_Marco_Caselli_NirmalArthur Miller ritorna al Nuovo di Verona, dal 28 marzo al 2 aprile, in chiusura del “Grande Teatro”, la rassegna di prosa organizzata dal Comune scaligero e dal Teatro Stabile del Veneto, con Unicredit come main partner.

Stavolta, dopo “Morte di un commesso viaggiatore”, va in scena, fino al 2 aprile, un lavoro molto meno frequentato, “Il prezzo”, riflessione di vita o, meglio, di vite, riesumando il passato alla luce del presente. Lo spunto per riflettere nasce dalla necessità di vendere i vecchi mobili del capofamiglia, vittima della crisi del ’29, accatastati nel seminterrato di un edificio in demolizione, e dividere l’eredità tra i due figli e la nuora. La contrattazione sul prezzo di quegli oggetti emblematicamente rappresenta il valore che ciascun erede dà al proprio vissuto in correlazione con gli altri, in un’alternanza di momenti divertenti e di momenti drammatici. L’attenzione, quindi, di Miller è ancora una volta focalizzata sulla famiglia e sul disagio che in essa si crea al mutare delle situazioni economiche e sociali.

The Price”, andato in scena per la prima volta a Broadway nel 1968, arrivò in Italia l’anno successivo con Raf Vallone e Ferruccio De Ceresa nei ruoli principali. Ora viene riproposto dalla Compagnia Umberto Orsini per la regia di Massimo Popolizio (che interpreta anche il personaggio di Victor) con le scene adeguatamente squallide e claustrofobiche di Maurizio Balò e i costumi anni ’50 di Gianluca Sbicca.

La regia di Popolizio esalta soprattutto carattere e spessore dei quattro personaggi. Dei tre imparentati, attraverso le loro sceltePRICE_1_ph_Marco_Caselli_Nirmal primarie — chi ha privilegiato la famiglia, chi la carriera, chi la cura del suocero — portando alla luce il ritratto dall’interno di un nucleo in disfacimento, proprio come l’edificio in demolizione di cui si sentono già i sordi boati. Del quarto, il vecchio ultranovantenne antiquario di mobili usati, che sui tre naufraghi della vita prevarrà con la sua commista voglia di vivere e di denaro, accentuando della sua figura gli aspetti più inquietanti e finalmente catartici. La recitazione, nella traduzione di Masolino d’Amico, eccellente ancorché oculatamente alleggerita per consentire maggior ritmo allo spettacolo, si mantiene monocroma, senza picchi né cadute, sui toni costantemente ironici ed autoironici di un cinismo acido e talora surreale; nel dualismo cromatico delle luci di Pasquale Mari, che scandisce l’alternanza tra memorie del passato e presente, tra sogno e realtà, mentre, per contro, la mancanza di sipario elimina l’alterità tra finzione e reale. Un modo “altro” di vedere questa pièce, con toni decisamente sopra le righe e stilemi antinaturalistici di approccio, mentre ad un tempo si invita il pubblico a calarsi direttamente in quel mondo evocato, del quale, peraltro, non è chiaro se si voglia ancora credere l’attualità o prendere da esso le distanze.

Bravissimi e applauditissimi, in un teatro gremito, soprattutto i quattro attori: dall’evergreen Umberto Orsini (l’antiquario ebreo russo Solomon) al poliziotto Victor (Massimo Popolizio), a Alvia Reale, nei panni di sua moglie Esther, a Elia Schilton, in quelli del fratello carrierista di Victor.

Franca Barbuggiani

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