Un’escursione veloce nella sezione teatro al Mittelfest 2017 in data 21 luglio, per vedere due produzioni legate al teatro, due proposte profondamente differenti nei linguaggi e negli esiti.
Il primo “Lampedusa”, è già chiaramente allusivo nel titolo al dramma che si sta svolgendo nelle acque del Mediterraneo con lo sbarco dei migranti. Il tema quanto mai attuale e al centro di polemiche politiche, proprio per questo è di per sé insidioso: facile cadere nel banale, nel già detto, nei luoghi comuni, soprattutto in assenza di un’opera di scavo che vada oltre il manifesto bonista del “vogliamoci bene, siamo tutti fratelli”, approfondimenti che il testo di Anders Lustgarten nella traduzione di Elena Battista non sembra avere suggerito alla regia di Gian Piero Borgia.
Ne è risultato quindi un lavoro drammaturgico piuttosto piatto, privo di azioni sceniche, giocato sul doppio monologo di due storie intrecciate, quelle di Stefano, pescatore siciliano impegnato a recuperare i corpi dei profughi annegati in mare, interpretato da Fabio Troiano e di Denise, donna immigrata di seconda generazione che riscuote crediti inevasi per una società di prestiti, interpretata dall’attrice turca Deniz Ozdogan.
Due monologhi indipendenti tra loro, tesi a dimostrare il percorso di trasformazione personale dei due protagonisti nella considerazione dell’immigrato: da estraneo ad “amico” o “persona cara”, un percorso più interiore emozionale parrebbe e perciò relegato ad esperienza privata tesa a “commuovere” più che a convincere; uno spettacolo che pare alludere allo scivolamento di un teatro verso la china tra il comizio politico e la predica cattolica ( due linguaggi non a caso presi ultimamente ad esempio in teatro forse perché immediatamente riconoscibili dagli spettatori equamente distribuiti tra l’uno e l’altro).
Uno spettacolo quindi, dal mio punto di vista, carente sul piano drammaturgico per assenza di reali contenuti e/o approfondimenti che sarebbero potuti scaturire dal testo o dal tema, ( si è preferito rimanere in superficie citando tutti i luoghi comuni già noti sull’argomento: dall’immigrato che ci ruba il posto di lavoro al beneficio economico giornaliero che ognuno di essi trarrebbe) e altrettanto sterile sul piano dei linguaggi teatrali che, oltre la parola e la voce, peraltro non sempre sapienti, non ha saputo arricchire l’esperienza dello spettatore con azioni sceniche, rielaborazioni concettuali e suggestioni di immagini. Nè viene trattato in modo convincente, sempre a mio parere, il tema della speranza che vorrebbe essere centrale allo spettacolo, secondo la presentazione, motore primo che spinge i profughi alla partenza, pur nella consapevolezza del pericolo di perdere la vita.
In sostanza sembra che manchi il perno di questo spettacolo, l’ “urgenza” della sua messa in scena, la motivazione artistica vera che l’ha mosso.
Una prima assoluta, coproduzione BAM Teatro, Teatro Eliseo e Mittelfest 2017, in collaborazione con La Corte Ospitale, che ci induce a riflettere sul futuro del teatro, sulle sue tante direzioni insoddisfacenti eppure apprezzate, sul rapporto tra attori e spettatori, sulla caccia al consenso e forse in nome di questo alla rinuncia di maggiori ambizioni in favore di produzioni più commerciali, o sonnacchiosamente ammiccanti, invece che artistico/culturali.
La semplicità del concetto di fondo ( siamo tutti fratelli) e quella del linguaggio adottato, senza scogli, a parte le numerose parolacce che fortunatamente non inducono ad ilarità, sono apprezzate dal numeroso pubblico presente che applaude.
La Compagnia in questione mi perdonerà se prendo a pretesto questa messa in scena, che ha avuto il merito di innescare dubbi, per allargare la tematica sul teatro e ampliare il dibattito sul rapporto teatro/ committenza/ critica e pubblico e indirizzarlo in particolare a tutto quel corollario che sta intorno, ( critici, direttori artistici, politici, enti promotori e di produzione, segnalazioni e premi spesso immeritati) teso a difendere lavori teatrali dal mio punto di vista a volte indifendibili, anche per apparenti schizofrenici metri di giudizio.
Il riconoscimento a prescindere di un percorso teatrale intrapreso, che alcuni vorrebbero sempre e comunque rispettato indipendentemente dagli esiti, dovrebbe passare dal mio punto di vista invece da un confronto costruttivo capace di fare crescere tanto chi il teatro lo fa che chi lo guarda, con disamine intellettualmente oneste, sempre più rare in ogni ambito artistico. Peccato che, oggi più di ieri, il dibattito post spettacolo venga sempre abilmente evitato per nascondere ritengo l’omertà intorno al concetto del “buon teatro”, mia convinzione rinsaldata dopo le ultime interviste fatte ad artisti e ad operatori del settore, in ordine a possibili definizioni di teatro, con risposte che cito fedelmente omettendo il nome dei noti personaggi intervistati “ E’ una domanda malposta….”(operatrice culturale) “Le definizioni di teatro sono intellettualismi inutili”( direttore artistico) “ Impossibile rispondere a questa domanda da almeno 30 anni a questa parte”. ( regista). E infatti chi se la sente oggi di dare una seppur larga definizione di cosa sia il teatro o il “non teatro”, tra il guazzabuglio di proposte in gioco e la molteplicità dei teatri? Neppure le dichiarazioni di poetica personale o di fedeltà a percorsi, processi, tensioni verso, sembrano andare più di moda forse per la paura di scontentare qualcuno o di essere esclusi da certi ambiti che come magicamente si impongono per volontà di pochi: dirottamenti dell’attenzione generale, nuove linee di tendenza. E’ evidente che non vi è nulla di democratico in questo modo di procedere bizzarro, che premia o censura senza dirlo e senza spiegare il perché. Perché la trasparenza è e rimane a mio avviso il nodo cruciale. E la trasparenza passa attraverso il riconoscimento dichiarato delle reciproche differenze, delle singole parzialità che si confrontano, come in democrazia. Come può esistere infatti una scelta coerente di direzione artistica, una motivazione al senso di esistere di una “critica teatrale”, l’assegnazione di premi in assenza di criteri, magari relativi a quel contesto o a quel direttore artistico, capaci di fare la differenza tra ciò che si ritiene buono e ciò che non lo è?
Il secondo spettacolo visto nella stessa giornata “Report on the blind”, monologo conclusivo e molto atteso di John
Malkovich, inserito in un nutrito programma musicale, non ha invece tradito le alte aspettative, complici non solo la straordinaria presenza scenica dell’attore, includendo nella presenza scenica il grande lavoro attoriale sotteso all’uso della voce e del corpo, ma anche il fecondo ed originale testo di Ernesto Sabato, terzo capitolo del romanzo del ’61 “Sopra eroi e tombe”, importante opera della letteratura argentina.
E’ la dimostrazione di come un testo ricco di immagini, suggestioni, metafore, visioni e lucida ironia si possa trasformare in un’arma affilata e potente, capace di squarciare il velo delle apparenze lungo quello spartiacque più profondo che sentiamo appartenerci, tra sogno/visione, follia/allucinazione e ossessione/realtà, quando affidato ad un interprete magnetico e carismatico.
Incisivo il concerto per pianoforte ed archi di Alfred Schnittke con al pianoforte Anastasya Terenkova che ha accompagnato commentando la voce narrante dell’attore e godibile il programma musicale che lo ha preceduto: il Concerto in la minore per violino, archi e continuo BWV 1041 di Johann Sebastian Bach, con Lana Trotovsek al violino e la Kammersinfonie op.110a per orchestra d’archi dal Quartetto n.8 in do maggiore di Dmitrij Sostakovic, per la trascrizione di Rudolf Barsaj, eseguiti da I Solisti Aquilani e l’attenta direzione di Alvise Casellati, sensibile interprete di equilibri ed accenti.
Emanuela Dal Pozzo