Ottavo titolo in programma, “Tosca” di Puccini ritorna trionfalmente all’Arena di Verona nella edizione firmata alla regia, scene, costumi e luci dall’argentino Hugo de Ana.
Creata per l‘anfiteatro veronese nel 2006 e già qui ripresa più volte (questa è la sesta) l’edizione di de Ana si conferma tra le più valide realizzate per questo titolo in questa sede. Un potenziale “cult” nel repertorio degli allestimenti operistici in Arena. Monumentale e sontuosa, pur nel rispetto dei momenti più intimisti e leggeri, coglie e rende efficacemente il contesto storico di pesante giogo politico incombente, all’epoca, sulla città di Roma (siamo nel giugno del 1800, in un’atmosfera di grande fermento, sull’eco degli avvenimenti rivoluzionari francesi) di cui Scarpia è emblema ed esecutore. Come, su un piano più simbolico, è ribadito pure dalla gigantesca figura angelica (volto bellissimo e severo, un braccio armato di spada e uno di simboli religiosi: è l’arcangelo che sta sopra Castel Sant’Angelo, la prigione dei Papi; quel Michele che ricaccia i Demoni all’Inferno e scaccia gli Antichi Progenitori dal Paradiso Terrestre) gradualmente disvelata, con il procedere della vicenda verso il suo tragico epilogo.
Una sembianza angelica che in realtà rimanda all’ineludibile destino dei protagonisti, vittime di un potere tutto temporale che, pur asserendo legittimazioni altre, preferisce la spada alla misericordia: quest’ultima potrà prevalere soltanto oltre la morte.
Tale mix di sacro e profano, che permea tutta la vicenda, trova la sua mirabile sintesi e apoteosi nello straordinario “Te Deum”. Una pagina musicale (che, nella sua epica grandiosità e come chiave di volta per l’intrusione della macrostoria nelle microstorie dei protagonisti, ci riporta alla mente il celeberrimo “Trionfo” della verdiana “Aida”) per la quale de Ana trova — momento clou dello spettacolo — adeguato grandioso allestimento, anche con l’apporto dei sontuosi costumi d’epoca e degli opportuni giochi di luce.
Ma nella cinematografica teatralità della sua versione, de Ana, con abile e ben calibrata regia, mette del pari in giusto risalto le figure dei singoli protagonisti. Sostanzialmente ridotti a tre, nei ruoli principali, a seguito dell’operazione di snellimento attuata dai librettisti Luigi Illica e Giuseppe Giacosa sull’omonimo dramma di Victorien Sardou, trasformando la vicenda in una sorta di giallo psicologico con momenti di sadica violenza.
Alla “prima” di questa ripresa 2017, sul podio era Antonino Fogliani (al suo debutto areniano, dopo aver diretto lo stesso titolo al Filarmonico nell’ambito della scorsa stagione invernale), del pari attento alle peculiarità stilistiche — di ampio respiro innovativo ed europeo — della partitura che alle sue varie atmosfere emozionali, trovando valida rispondenza da parte dell’orchestra.
Susanna Branchini è Tosca di bel temperamento drammatico e occupa con sicurezza la scena. La voce è ricca ed estesa, con punti di forza nei registri acuto e centrale: una più precisa messa a punto dell’emissione renderebbe la linea di canto più omogenea e la dizione più chiara.
Carlo Ventre è appassionato Cavaradossi, di valenza soprattutto lirica.
Ottimo Ambrogio Maestri nei panni di Scarpia, impeccabile nel canto, elegante nella sua lascivia, tormentato nella sua luciferina malvagità.
Bene, inoltre, Nicolò Ceriani, un Sacrestano brillante senza sbavature; Romano Dal Zovo, ottimo Angelotti; Antonello Ceron, Spoletta tutto finta sottomissione.
Come pure, nei ruoli di contorno, Marco Camastra (Sciarrone) e Omar Kamata (un Carceriere). Precisa e disinvolta la musicalissima tredicenne Emma Rodella (un Pastorello).
Di pregevole livello, inoltre, la prestazione del Coro dell’Arena preparato da Vito Lombardi e del Coro di Voci bianche A.d’A.MUS, diretto da Marco Tonini.
Arena con i grandi numeri vicini al tutto esaurito e pieno successo di pubblico.
Franca Barbuggiani