C’è una sola scena, in “Happy End”quando George Laurent, patriarca della famiglia di industriali di Calais, con un po’ di demenza senile e senza più alcun interesse per la vita, ricorda il tragico momento della morte della moglie, con un chiaro riferimento al capitolo precedente del “discorso” di Haneke. George è infatti lo stesso Jean-Louis Trintignan di “Amour” che offre un’altra grande performance, rafforzata qui dal doppiaggio perfetto di Adalberto Maria Merli.
Ed è un momento di pathos sublime, l’unico in cui affiorino i sentimenti nella glaciale messa in scena del regista austriaco che in un quadro di disarmante normalità ci racconta l’inevitabile putrefazione di una borghesia che in fondo è lo specchio di un’intera società.
“Happy End “è un film del tutto antiretorico e anticonvenzionale, ma ugualmente quella di Haneke è una lezione di scrittura e di regia in cui niente appare men che perfetto. Non un solo fotogramma: l’algida fotografia è dello stesso Christian Berger de’ “La pianista” e “Il nastro bianco”. Non una sola successione di scene: il montaggio è di Monika Willi, con Haneke nel precedente “Amour”. Non una sola parola: che sia pronunciata o scritta da qualche parte; che sia in francese (in italiano, per noi) o nell’inglese sottotitolato dei dialoghi fra la Huppert e Toby Jones.
Una lezione di cinema che ha come protagonista la famiglia Laurent, con annessi e connessi. E la tredicenne Eve, che vi giunge per la morte della madre, con la freddezza di un perito-settore ha il compito di osservare, fotografare, spiare, riprendere, interrogare.
Sfortunata erede spuria della dinastia, Eve è anche l’ultimo anello di una razza in estinzione che ha perso ogni contatto vitale coi sentimenti e con le emozioni. E la piccola Fantine Harduin ha lo sguardo giusto per mostrare lo smarrimento di chi è già, suo malgrado, dentro una meccanismo infernale che non lascia alcuna possibilità di Happy End, neanche futuro.
Certo non può esserle d’aiuto il padre, divenuto quasi uno sconosciuto.
Thomas, interpretato da Mathieux Kassovitz ha abdicato da tempo al suo ruolo di padre, ma ignorante com’è in materia d’amore non ha resistito alla tentazione di rifugiarsi in una nuova famiglia, paravento per le sue vere pulsioni.
Men che meno Eve può trovare un riferimento nel cugino Pierrot (Franz Rogowski), generazione dei trentenni, incapace di una vera ribellione, ma anche di assumersi responsabilità che non è attrezzato ad affrontare.
Non resta che Anne, primogenita di George, madre di Pierrot e sorella di Thomas, il deus ex-machina della famiglia e dell’azienda, che in fondo sono la stessa cosa. Efficiente e spietata, con una soluzione di buon senso per tutto. Ma nella Isabelle Huppert che la impersona come nessuno meglio di lei potrebbe, Haneke trova l’essenza stessa di quell’assenza di empatia, emozioni e sentimenti che Happy End vuol rappresentare.
E tutto succede a Calais, simbolo di una migrazione epocale che sta smascherando l’ipocrisia dell’occidente. Ma quei disperati fanno capolino solo per la provocazione di Pierrot alla festa di fidanzamento della madre con il banchiere americano venuto a salvare l’azienda.
Di nuovo, famiglia e azienda si confondono. Mentre nel candore della sala da pranzo i commensali guardano attoniti i nuovi arrivati.
Neanche nel finale, citato beffardamente fin dal titolo, Haneke ci concede quella consolazione drammaturgica che spesso il “bel gesto” può dare. Niente è più drammatico però del vecchio sulla sedia a rotelle con l’acqua al petto, e dei figli che accorrono in soccorso, parodia di solidarietà che la piccola Eve riprende freddamente col telefonino.
Dino Geromel
HAPPY END
Regia : Michael Haneke
Sceneggiatura : Michael Haneke
Fotografia: Christian Berger
Montaggio: Monika Willi
Cast : Isabelle Huppert,Mathieu Kassovitz, Jean-Louis Trintignant, Fantine Harduin, Dominique Besnehard.