Quando, nel 1921 al Teatro Valle di Roma, “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello debuttò, lo shock fu notevole per gli spettatori dell’epoca. Comprensibilmente, data la natura fuori dagli schemi del testo, certamente uno dei più importanti del Novecento, anticipatore di innovativi mondi e modi artistici – concettuali, esistenzialisti, antinaturalisti, stranianti – a venire. Oltre che ideale sintesi delle tematiche tipiche informanti l’opera dell’Agrigentino e primo di una serie di suoi lavori ispirati al “teatro nel teatro”: testimonianza di una delle più importanti riflessioni su di esso del Novecento.
Dopo il debutto napoletano dello scorso ottobre al Mercadante, è giunta ora al Nuovo di Verona per “Il Grande Teatro” al quinto appuntamento, una interessante edizione della pièce, prodotta dal Teatro Statale di Napoli-Teatro Nazionale e Teatro Stabile di Genova, per la regia di Luca De Fusco, che con essa conclude idealmente un lavoro di contaminazione tra teatro e cinema, iniziato nel 2010 proprio con Pirandello e proseguito con Shakespeare e Eschilo.
Nello specifico, il riferimento filmico per “I sei personaggi” è la pellicola di Woody Allen, del 1984, “Broadway Danny Rose”, dalla quale è mutuato l’espediente di fare entrare in scena i Personaggi — anziché dalla platea come da copione — da uno schermo, introducendo così un intrigante gioco di scambi tra bidimensionalità cinematografica e realistica tridimensionalità del palcoscenico. In omaggio, forse, anche a un certo interesse manifestato dall’Autore verso la Decima Musa, e certamente con spirito non meno provocatorio di quello pirandelliano. D’altro canto, limitando in tale contesto il fedele coinvolgimento della platea ai movimenti di Attori e Capocomico, ci sembra che, di quest’altro espediente, venga ulteriormente enfatizzata la valenza di “naturalistico” contrappeso alla “surreale” tragica “realtà” dei “Personaggi”.
Lo spettacolo è tutto giocato su questo dualismo. Le scene (di Marta Crisolini Malatesta, che firma pure i costumi) sono caratterizzate da un grande fondale/schermo/muro scuro con, ai margini del palcoscenico, essenziali elementi della moderna quotidianità teatrale, asciugati dalle pesanti indicazioni sull’arredo date dall’Autore. Dallo schermo illuminato da una luce fredda e bluastra (le luci sono di Gigi Saccomandi) escono, come inquietanti apparizioni fantasmatiche, i Personaggi in scuri costumi d’epoca. Sullo schermo, inoltre, si proiettano, tra l’altro, non meno inquietanti proiezioni in bianco e nero di gusto espressionista, oltre a un ingannevole dolce squarcio del lago letale (installazioni video di Alessandro Papa). I costumi, invece, sono rigorosamente moderni e casual per Attori e Capocomico, i quali si muovono in una luce naturale. Anche il registro recitativo sottolinea i due diversi piani di “realtà”: quella eternamente immutabile dei Personaggi e quella transeunte della quotidianità spicciola degli Attori.
Eros Pagni, in una prova intensa e misurata, esprime il dolore e la vergogna del Padre in una sfera di sospesa umanissima aulicità. Gaia Aprea (la Figliastra) grida la sua storia sciagurata con estroversa veemenza e tragicità spesso beffarda, dominando la scena con multiforme padronanza. Angela Pagano impersona Madama Pace con gustosa caricaturale ironia, mentre resta un po’ sbiadita la Madre di Maria Basile Scarpetta. Bene, inoltre, Paolo Serra (Capocomico) e Gianluca Musiu (il Figlio) con tutto il resto della compagnia.
Pieno successo di pubblico.
Franca Barbuggiani