OFELIA 4 E48 AL CAMPLOY DI VERONA. RECENSIONE.

Imprevedibile la messa in scena di “Ofelia 4 e 48”, allestita al Camploy di Verona per la Rassegna “L’Altro teatro”il 6 febbraio 2014. Chi si aspettava ,me compresa, date le premesse, un testo impegnativo ed uno spettacolo serioso e drammatico, a ripercorrere le ultime annotazioni di Sarah Kane, prima del suo suicidio avvenuto nel 1999 all’età di 28 anni, è rimasto sorpreso nella visione di un’attrice spumeggiante e piena di vita ( pur a tratti sospesa quasi incredula sul baratro), capace di intrattenere il pubblico con pezzi semplicemente divertenti, con altri cinicamente umoristici.

Spesso determinante l’intervento del regista Stefano Cenci, a dirigere direttamente gli umori della protagonista, a spostare temi e situazioni, o svelandosi nel ruolo di uno psicanalista intento a sollecitare le confessioni della protagonista, o intervenendo direttamente al limite della scena, in una trade union tra palcoscenico e pubblico, ad esprimere stati d’animo e commenti verbali e danzati.

A tratti lo spettacolo assume l’aspetto di una simpatica intervista dell’Inconscio, nel quale i quadri scenici sembrano fluire per analogie ed associazioni e in cui il ruolo regista/psicanalista si fondono, per fare emergere le tante sfaccettature della personalità dell’attrice, anch’essa nel duplice ruolo di se stessa e di Sarah Kane.

Lunghe ( a volte troppo) citazioni: dall’iniziale “ Giorni felici” di Samuel Beckett, all’”Amleto” di Shakespeare, alla proiezione di filmati compreso il coinvolgente finale omaggio a Mia Martini.

Se spiazza l’intervento così deciso di Stefano Cenci, a tratti autoritario e narcisistico, sicuramente provocatorio, colpisce al contrario la duttilità di Elisa Lolli ,unica interprete in scena, che unisce alla versatilità espressiva, puntuale e aderente ai diversi stati d’animo del proprio personaggio, una permeabilità sorprendente, non facilmente riscontrabile oggi negli attori solisti, spesso compresi della propria storia attoriale.

Ne esce nell’insieme uno spettacolo simpatico, leggero, fluido, con qualche inciampo di ritmo forse inevitabile in tratti di improvvisazione scenica, ma certamente vivo e quindi capace di arrivare al pubblico, nel quale le annotazioni personali di Sarah Kane, allusive di profondità drammatica, vengono talmente stemperate da sembrare quasi “casuali”, acquistando incisività nella poesia.

Lo spettacolo si presenta così con una sorta di doppia ossatura sul filo sottile vita/morte, una morte che aleggia a tratti nell’aria, impalpabile e sdrammatizzata , quasi presenza amica, non fosse per lo svelarsi del contenuto del titolo: le ore 4 e 48 è il momento statisticamente più significativo per la scelta del suicidio, a segnare probabilmente il picco più alto di depressione.

Dicono le note di regia : “…..Il conflitto che Sarah aveva con se stessa è esploso, frammentandolo spettacolo in un caleidoscopio di personaggi e presenze, schegge della propria complessa personalità, testimonianza di una vita d’artista così complicata da risultare incomprensibile a questo mondo e distante dall’attitudine profondamente umana a semplificare il tutto per rendere il tutto comprensibile.”

Lo spettacolo però, dal mio personale punto di vista, calato in questo presente quotidiano distratto e superficiale, in cui ogni cosa , anche il dramma della morte violenta o l’angoscia individuale esistenziale, diventano “normalità” incapaci di scuotere coscienze, senza troppe riflessioni, desta qualche perplessità e corre sul filo dell’ambiguità: provocazione o adeguamento al presente?

Sul piano dei contenuti rimane il dubbio della scelta di scorciatoie facili, più allineate all’onda del “simpaticamente sensibile” che del tortuosamente profondo, nonostante il riconoscimento di un buon lavoro teatrale dal quale emergono piacevolezza d’insieme e capacità di rompere in modo nuovo schemi precostituiti, frutto di un intelligente interrogarsi sul teatro.

A fine spettacolo si esce con un’allegria venata di tristezza.

Dopo lo spettacolo intrattengo il regista con una piccola intervista.

La scelta di uno svolgimento così leggero per la messa in scena di un tema così drammatico come il suicidio di Sarah Kane dipende da esigenze di pubblico, è una costante della tua poetica, o è il risultato della percezione della personalità di Sarah kane, emersa dai suoi scritti?

Tutte e tre le cose insieme. Soprattutto in questo spettacolo volevo offrire di Sarah Kane un’immagine diversa da quella offerta dal mondo lesbico che ne fa un simbolo. Gli scritti sui quali abbiamo lavorato, gli ultimi prima della sua morte, non erano organizzati e mescolavano battute a stati d’animo ed annotazioni, senza nessuna indicazione su come poterli utilizzare.

E’ stato quindi un lavoro collettivo?

La mia preoccupazione non era quella di rimanere aderente ai testi piuttosto di interpretarne il senso e restituirlo nello spettacolo, mantenendolo vivo. Abbiamo lavorato di gruppo e ognuno di noi ha elaborato dei materiali filtrati dalla sensibilità e dall’esperienza personale. Da questa mole di lavoro poi ho sfrondato e mantenuto ciò che ritenevo essenziale.

Ho visto che anche tu intervieni direttamente in scena.

Certo, mi sento in dovere di farlo, per condividerne il peso con l’attrice, ma anche perchè mi permette di indirizzare lo spettacolo, aggiungere contenuti e modificare gli equilibri a seconda della situazione che si viene a creare.

Mi stai dicendo che ogni spettacolo è diverso?

Si. Diciamo che c’è una griglia che rispettiamo e che ci sono delle aperture tra le maglie nelle quali intervengo.

Emanuela Dal Pozzo

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