Cassandra, la profetessa inascoltata. Figlia di Ecuba e di Priamo, re di Troia, aveva ricevuto il dono della profezia da Apollo, che così sperava di conquistare l’amore della fanciulla, sua sacerdotessa. Ma, da lei respinto, il dio l’aveva punita rendendo inascoltati i suoi vaticini. Così i Troiani, che avevano dato della pazza alla lungimirante figlia del re, perdettero se stessi e la patria.
A questa mitica figura si ispira una drammaturgia di Elisabetta Pozzi, memore sia delle antiche fonti (Omero, Euripide, Seneca) sia di quelle moderne (Christa Wolf, Szymborska, Ritsos), che è alla base dello spettacolo, mutante a seconda dei luoghi ospitanti ai quali di volta in volta si adatta, titolato appunto “Cassandra-site specific”, diretto e interpretato dalla stessa Pozzi.
E’ prodotto dal Teatro Scientifico-Teatro Laboratorio, che l’ha inserito nel progetto di Isabella Caserta “Femminiletrapassatopresente”.
Già presentato nell’ambito della scorsa Estate Teatrale Veronese, è stato riproposto il 12 aprile nella rassegna “L’altro teatro”, organizzata dal Comune di Verona con Arteven e Ersilia Cooperativa, nella sala del Camploy.
Elisabetta Pozzi “incontra” Cassandra alla Porta dei Leoni di Micene, sito archeologico di alta frequentazione turistica. Sulla particolare sensibilità della Pozzi, esso produce una sorta di magico transfert che – come aprendo un ideale varco tra passato e presente – consente alla sfortunata eroina di tornare a vivere, in simbiosi con Elisabetta, la sua tragedia esistenziale e quella di quei luoghi martoriati.
Tragedia privata e tragedia di popolo si fondono in una narrazione coinvolgente e incalzante nei modi della discontinuità postmoderna, fino all’introduzione, con l’inganno, del fatale cavallo entro le mura di Troia e la morte violenta di Cassandra, a Micene, con Agamennone che l’aveva voluta quale sua nuova regina. Tutti eventi che la profetessa inascoltata aveva puntualmente vaticinato, ma che i Troiani, al di là della punizione del dio, nella loro stolta cecità si erano rifiutati di ascoltare per non vedere la verità. Un assunto che, oltre i millenni, nel finale (al quale dà un importate contributo un intellettuale di spessore e controcorrente come Massimo Fini) coinvolge pure il nostro tempo. Oltraggiata e ripudiata la Natura con i suoi fecondi cicli temporali, guide infallibili del contadino, per sterili e perigliose invenzioni, tutte mentali, nel solco di un velleitario tempo lineare tanto caro al mercante, è fatidico profetizzare che nel nome dell’Economia l’Uomo moderno perderà se stesso. Il testo, un monologo ciclicamente strutturato, innesta il pensiero di filosofi come Kierkegard e Edmund Husserl sul mito, raggiungendo climax da antica tragedia e trovando in Elisabetta Pozzi magistrale interprete. Talora l’impeto gestuale e vocale sfiora l’enfasi, ma il pathos e l’empatia sono coinvolgenti ed emozionanti; ben sostenuti, inoltre, dalle musiche originali – quasi un tutt’uno con il testo – firmate da Daniele D’Angelo.
I costumi e l’apparato scenotecnico si ispirano a mode pop e “povere”, come la regia ripropone momenti “di provocazione”: scelte un po’ datate, forse, ma che ci sono sembrate bene inserite in un contenitore come il Camploy, dove armoniosamente, senza stridori, la struttura sposa anticonformismo e classicità.
Lunghi e meritatissimi gli applausi del pubblico.
Visto il 12 aprile
Franca Barbuggiani