Attesa novità della stagione areniana 2018, la “Carmen” di Bizet, firmata appositamente in regia, scene e costumi da Hugo de Ana (22 giugno-31 agosto), ha aperto il 96° Opera Festival all’Arena di Verona. Ma l’esito non ci è parso all’altezza delle aspettative. Per lo meno rispetto agli standard ai quali il regista argentino ci aveva abituato in precedenti prove, all’aperto e al chiuso. Soprattutto, ci è sembrato che la fatale attrazione – tutta carnalità e istinto – destinata a segnare tragicamente i destini della provocante e volubile sigaraia Carmen e del giovane militare José, tutto divisa, mamma e affezionata fidanzata, che scopre per la prima volta l’universo sconvolgente della passione, sia rimasta alquanto sfumata, fagocitata dall’invasivo contesto generale che assurge da cornice a ingombrante coprotagonista.
Ci sono le citazioni folcloriche d’obbligo: la corrida — con maschere di toro gestite da mimi e figuranti, e i picadores a cavallo — e inserti di danze (genericamente e fiaccamente gitani, di Leda Lojodice).
Ci sono momenti di sicura spettacolarità (nel filone del kolossal areniano) ottenuti con giochi pirotecnici ed esibizioni di virtuosismi equestri, valorizzati dalle suggestive luci di Paolo Mazzon. Ci sono, inoltre, le spettacolari megaproiezioni (di Sergio Metalli) e citazioni di omaggio alla “Carmen” creata per l’Arena da Franco Zeffirelli nel 1995 (più volte ripresa, non senza variazioni, nell’anfiteatro veronese) come evidenziano i grandi manifesti e stendardi della corrida. Ma, in realtà, la Spagna di questa “Carmen”, è una Spagna dolente, povera, dimessa e di periferia; decisamente rivisitata in chiave drammaticamente moderna e attuale, ben oltre i limiti temporali, dichiarati, della vigilia della guerra civile che porterà all’affermazione del Franchismo.
Tra rigidi muri di confine, metalliche gabbie di contenimento, conclamate insuperabili frontiere, proiezioni di scheletriche quanto irraggiungibili architetture urbane, si agitano gruppi di migranti e tribù zingare — non più figlie del vento – del pari alla ricerca di destini migliori e di libertà.
E la terra agognata si fa grande claustrofobico sito di costrizione, rigidamente controllato da militari in armi con tanto di carriaggi. La stessa atmosfera claustrofobica, pregna di violenza e di morte, che, con andamento ciclico, il regista emblematicamente propone con i dimessi recinti per tauromachia in apertura e conclusione di spettacolo, dove si consumano letali giochi tra uomo e bestia, brutali fucilazioni di regime e privati femminicidi.
La direzione di Francesco Ivan Ciampa si mantiene nel solco di una tradizione elegantemente attenta a dinamiche, timbri e colori oltre che ai contenuti drammatici e lirici della partitura, con buona risposta da parte dell’Orchestra della Fondazione. La Carmen di Anna Goryachova supplisce ai limiti attorali di un ruolo da approfondire con la naturale carica erotica del timbro scuro e vellutato di una voce solida e dall’acuto squillante.
Generico il Don José di Brian Jadge e alquanto spento l’Escamillo di Gocha Abuladze: entrambe voci già con buoni registri centrali, ma ulteriormente migliorabili a completezza con appropriato studio.
Un plauso speciale va a Mariangela Sicilia, dal canto ricco di colore e tecnicamente pregevole, nei panni di una non frequente Micaela estroversa e carica di grande affettività.
Impeccabili le vivacissime Ruth Iniesta (Frasquita) e Arina Alexeeva (Mercédès) specialmente nella cronometrica sintonia dello splendido quintetto del secondo atto, con Carmen e i bravissimi Davide Fersini (Dancairo) e Enrico Casari (Remendado).
Impegnati Luca Dall’Amico (Zuniga) e Nicolò Ceriani (Moralès).
Ottimo il Coro della Fondazione preparato da Vito Lombardi e ben preparato quello di Voci Bianche A.LI.VE. diretto da Paolo Facincani.
Pubblico plaudente.
Visto il 29 giugno
Franca Barbuggiani