INTERVISTA AD ANDREA BRUNELLO, DIRETTORE ARTISTICO DEL PORTLAND TEATRO DI TRENTO

“Portland è un Teatro, un Centro Culturale e una Scuola. Crediamo che il teatro sia importante perchè avvicina le persone, le fa riflettere sulle tante questioni della vita, e in ultima analisi ha il potenziale per renderle migliori” cita la locandina di presentazione della Stagione Teatrale 2013/2014 “Trentooltre” del Portland Teatro di Trento.

Avvicino Andrea Brunello, direttore artistico della Rassegna, a chiusura dello spettacolo “Libero nel paese della Resistenza”, per una breve intervista.

Quando nasce Portland Teatro?

Questa sede è stata aperta nel 2008, ma la Compagnia Arditodesìo con le sue produzioni era già attiva da alcuni anni. Per sei anni abbiamo avuto la possibilità di usufruire del Teatro Cuminetti di Trento, gestito dal Centro Santa Chiara, per mettere in scena le nostre produzioni. Ovviamente era una bella opportunità per la capienza del teatro, poi improvvisamente, cambiata la Direzione del Centro, ci hanno detto da un giorno all’altro che ciò non sarebbe stato più possibile. Così abbiamo preso in affitto questo spazio, omologato per 99 posti, per poter continuare la nostra attività. Dal 2008 proponiamo le nostre Rassegne delle quali siamo soddisfatti per l’alta frequenza di pubblico che registriamo, senza nascondere le difficoltà economiche di gestione. Non abbiamo più finanziamenti ministeriali ed è di pochi giorni fa la notizia che anche la Provincia ci ha tagliato gli aiuti economici.

In base a cosa selezioni gli spettacoli da inserire nelle Rassegne e che qualità secondo te dovrebbe avere il teatro?

Prima di scegliere uno spettacolo visiono il video integrale. Mi interessa il teatro civile, quello che guarda alla realtà, ma soprattutto “l’urgenza” del fare teatro da parte degli attori, quella cosa in base alla quale l’attore deve essere lì, perchè se sta da un’altra parte sta male, oltre ovviamente alla sua professionalità. Se c’è questo, qualsiasi cosa fa l’attore in scena la farà bene. Ci sono attori che conosco che, per questa “urgenza” di voler dire delle cose e di essere presenti diversamente sulla scena, hanno abbandonato compagnie anche importanti con guadagni più certi, per seguire una propria strada personale.

Capisco. In fondo, se non ti interessa davvero quello che fai, fare gli attori diventa un timbrare il cartellino, ripetere meccanicamente delle sequenze memorizzate. Come fare l’impiegato. Forse è per questo che a volte il teatro dei grandi circuiti mi annoia. Trovo spesso questo, delle piccole realtà territoriali, più interessante.

Ho visto che nelle tue produzioni ti avvali spesso di collaborazioni. Nel “Principio dell’Incertezza” ti sei appoggiato al Dipartimento di Fisica dell’Università di Trento, in questo “ Libero nel paese della Resistenza”alla CGIL. Quanto queste collaborazioni incidono e condizionano il tuo lavoro?

Mi piace collaborare con gli amici che stimo, credo nella condivisione di un progetto, selezionando ovviamente i partner. Con il regista ad esempio Christian Di Domenico mi trovo benissimo e sono contento di condividere con lui i successi morali ed economici. Per quanto riguarda l’ultimo lavoro, la CGL ha creduto in me e me l’ha commissionato. Io non ho accettato subito. Ho studiato a lungo i materiali prima, per capire se mi interessava davvero. Sono ad un punto del mio percorso artistico in cui non potrei accettare forzature. Non ho voluto nessuna ingerenza da parte loro. E la CGIL correttamente non ha mai visto né prove, né materiali, fino alla prima dello spettacolo.

Emanuela Dal Pozzo

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