“La guerra dei Roses”, ovvero la fine ingloriosa di un amore che, forse, passato il coinvolgimento passionale degli inizi, grande non doveva essere mai stato. Soltanto un perfetto sodalizio, ottimamente funzionale al raggiungimento del successo professionale e sociale di lui, con lei impeccabile partner al suo fianco che vive di luce riflessa. Il meraviglioso meccanismo va in pezzi quando lei rivendica una propria autonoma identità, economica e professionale. In pieno clima postfemminista, a fronte della irriducibile caparbietà di lei e alla totale inadeguatezza di lui a comprendere, il rapporto frana irreversibilmente fino alla peggiore delle conclusioni. Paradossalmente, il killer sarà proprio l’oggetto del contendere: la meravigliosa casa coniugale, testimonial di affermazione ai massimi livelli più che nido d’amore.
Romanzo dello scrittore e drammaturgo statunitense Warren Adler pubblicato nel 1981, “La guerra dei Roses” (feroce e logorante non meno di quella intestina inglese delle “due Rose”, come il regista Filippo Dini ha sottolineato; ma più irriducibile di quella, conclusa alfine da nozze dinastiche, aggiungiamo noi, perché non promette conciliazione neppure dopo la morte) diventò un film di successo nel 1989, con la regia di Danny De Vito e interpreti Michael Douglas e Kathleen Turner.
Il soggetto fu scritto dallo stesso Adler, che successivamente ne firmò anche la versione teatrale, facendone una commedia a tinte grottesche e oniriche, dove la violenza e la crudeltà distruttive e autodistruttive assolvono al loro compito devastante in bilico tra commedia e tragedia, trovando forse nella veste scenica la sua realizzazione più compiuta.
Nella colloquiale (anche troppo, con tutti quegli scontati e abusati intercalari!) di Antonia Brancati e Enrico Luttmann, ora “La guerra dei Roses” gira l’Italia in versione teatrale, coprodotta da Valerio Santoro La Pirandelliana e Goldenart Production per la regia del già citato Filippo Dini, con tappa a Verona, dal 15 al 20 gennaio, nella sala del Nuovo, dove ha segnato la ripresa della rassegna del Grande Teatro dopo la pausa natalizia.
Nel ruolo dei protagonisti troviamo Ambra Angiolini e Matteo Cremon, convincenti, pur nel registro recitativo monotonale e senza sorprese scelto per loro dalla regia, ispirato a una chiave minimalista che in lei si declina con note più pacate, quasi distaccate e condite di ironia, mentre in lui, meno rancoroso e più umano, ancora innamorato nonostante le crudeltà e le cattiverie reciproche, assume toni più estroversi e coinvolti.
Con loro, occupano adeguatamente la scena due bravi caratteristi, nei panni multipli dei legali della coppia e dei personaggi che interagiscono con le vicende dei Roses: il simpatico e versatile – anche dal punto di vista linguistico, per varietà di accenti dialettali e nazionali – Massimo Cagnina e la procace e disinibita Emanuela Guaina, non si sa se più accanita sportiva e frequentatrice del bel mondo o venefica e velenosa divorzista.
Con la Angiolini e Cremon formano un quartetto attorale ben affiatato e drammaturgicamente adeguato per una lettura di taglio psicoanalitico del dramma di Adler, con i suoi doppi e multipli psichici, fino al visionario e sulfureo finale.
Ricche di simbologia le scene di Laura Benzi –– con apparati e oggettistica di valenza iconica, quasi feticistica — ben valorizzate dalle luci di Pasquale Mari, che sottolineano atmosfere e scandiscono spazi, mentre gli adeguati costumi minimal sono di Alessandro Lai e le musiche di Arturo Annecchino.
Il pubblico, nonostante qualche mancato rientro dopo l’intervallo e alcune defezioni prima della fine (qualche sforbiciatina al testo e qualche guizzo in più nella recitazione sarebbero stati, a nostro avviso, opportuni oltre che graditi) applaude e non lesina risate, anche se piuttosto amare.
Franca Barbuggiani
Visto il 15 gennaio