Abbandonata l’originaria ambientazione borghese e urbana ottocentesca, “Don Pasquale” di Gaetano Donizetti, nell’edizione ideata da Antonio Albanese nel 2013 per la stagione filarmonica di Fondazione Arena di Verona in veste contemporanea, “en plein air”, vignaiola, agreste ed enologica nei costumi (di Elisabetta Gabbioneta) e un po’ naïf nelle colorate e floreali ambientazioni agresti (di Leila Fteita) prevalenti sul banale anonimato degli interni, è ritornato nel teatro dei Filarmonici veronesi, dal 24 febbraio al 3 marzo, ripreso alla regia da Roberto Maria Pizzuto.
Un’edizione che vuole essere un chiaro omaggio a Verona, specialmente in periodo di Vinitali capitale più che mai assoluta del vino (quelle iperboliche pareti ricolme di bottiglie di vini vari!) in particolare Amarone, che gode inoltre di una specifica citazione.
Lavoro maturo del compositore bergamasco, il “Don Pasquale”, composto nel 1842 e rappresentato per la prima volta al Teatro Italiano di Parigi nel gennaio 1843, bene evidenzia la duplice natura ispirativa dell’autore, buffo-giocosa e drammatica. Risente della lezione rossiniana e della tradizione comica tardonapoletana, ma rivisitata, oltre che del precedente lavoro di genere di Donizetti, “Elisir d’amore”, nonché del clima di avanzante romanticismo.
Il soggetto è ripreso, con poche variazioni, dal “Ser Marcantonio” di Angelo Anelli (musicato da Stefano Pavesi e rappresentato alla Scala nel 1810) ma dando ai personaggi principali (ridotti nel numero dal libretto scritto a quattro mani dallo stesso Donizetti con Giovanni Ruffini) una maggiore attenzione psicologica, pur senza uscire da una loro generica connotazione archetipica.
In parallelo con la regia asciutta e lineare di Albanese, che poco concede al giocoso se non nella gestione macchiettistica di una pletora di servitori vecchi e sciancati che più non si può, con un tocco di provocazione mandando il bravo coro preparato da Vito Lombardi a cantare anche tra gli spettatori in platea, Alvise Casellati, sul podio, più che la componente comica della partitura ne privilegia l’aspetto sentimentale e romantico, mentre si concedono ancora una volta all’orchestra volumi sonori talora prevaricanti sulle voci.
Nella compagnia di canto spiccano Carlo Lepore, Don Pasquale disinvolto e misurato, e soprattutto Ruth Iniesta, brillante e agile soprano lirico che carica la sua Norina di molti e variegati accenti.
Più modesti nel canto e sulla scena Federico Longhi, sbiadito Malatesta, e Matteo Falcier, quale Ernesto da approfondire nel ruolo e da perfezionare nel canto.
A posto Alessandro Busi (Un notaro).
Applausi per tutti.
Franca Barbuggiani
Visto il 28 febbraio