MEDEA SULLA STRADA DEL TEATRO DEI BORGIA
A Castiglioncello, venerdì 28 giugno, il pomeriggio festivaliero inizia alle 18.00 con lo spettacolo itinerante Medea sulla strada, una rilettura attualizzata di uno tra i miti al femminile per eccellenza che, insieme a Fedra, ha ispirato generazioni di registi, approfondimenti psicologici e innumerevoli riscritture.
A tentare l’impresa, questa volta, Teatro dei Borgia che, dal 2016, conduce – letteralmente – il suo furgone per sette spettatori attraverso le strade delle metropoli o dei piccoli centri italiani, invitando il pubblico a un viaggio ai confini della notte e tra i personaggi, spesso ambigui, che la abitano.
La domanda di partenza è ovvia: quale figura nella società attuale incarna Medea, la straniera: ripudiata, abbandonata, che si vendica come solo una madre può fare – con tanta ferocia ma altrettanta giustizia, nel senso di rimettere in pari quella bilancia che, per un tempo infinitamente lungo, aveva e ha pesato da una sola parte? Una ragazza rumena migrante, clandestina, avviata al mercato della prostituzione può incarnare l’archetipo della madre che fagocita i propri figli?
Sebbene il primo quarto d’ora non fluisca al meglio, soprattutto perché la recitazione è troppo sopra le righe e la descrizione della Romania infarcita di cliché, a mano a mano che il viaggio prosegue e la storia si fa insieme intima e universale, mentre la resa del personaggio passa dalla macchietta alla figura a tutto tondo, ecco che scatta se non l’identificazione sicuramente il riconoscimento. L’empatia rende possibile una comunicazione profonda, la comprensione di un fenomeno continuamente sotto i nostri occhi che, nell’immediatezza del confronto con l’altro da sé – nello specifico, un’ottima Elena Cotugno nei panni della giovane rumena – in uno stretto abitacolo come un furgone, si trasforma da titolo del notiziario o approfondimento con modellino in scala in programmi tv di seconda serata, in carne e sangue, sogni e cruda realtà.
E siccome l’arte, quando è autentica e non autoreferenziale, ha in sé il germe della verità, persino in strade come quelle di Castiglioncello, che si penserebbero meno frequentate da prostitute e clienti, un’automobile tenta di fermarsi quando l’autista adocchia l’attrice che, per qualche minuto, cammina in uno sterrato dove giace abbandonata- casualmente ma opportunamente – una roulotte.
Si riemerge dal viaggio silenziosi. Tacere e non giudicare, riflettere, comprendere nel senso di includere.
Forse se l’inclusione, in questi tempi molesti, prendesse il posto dell’esclusione, Medea non si troverebbe, oggi come quasi duemilacinquecento anni fa, sola, a dover scegliere.
DANZA: GRACES DI SILVIA GRIBAUDI E ORBI DI ABBONDANZA/BERTONI
In prima serata Silvia Gribaudi mette in scena, presso la Tensostruttura di Castello Pasquini, Graces. Spettacolo a cui fa seguito, sul palco del Teatro Solvay, Orbi di Abbondanza/Bertoni.
Per quanto possa apparire a prima vista improbabile, il confronto tra i due lavori coreografici non guasta visto che entrambi ricalcano una serie di scelte stilistiche che non sempre convincono.
La prima è indubbiamente l’ironia.
Sebbene la Gribaudi utilizzi tale forma retorica in maniera più convincente, soprattutto nella prima parte del lavoro, anche Abbondanza/Bertoni vi si rifanno per demistificare (con l’aggiunta di punte di grottesco decisamente pregnanti) una società dell’apparenza dove, paradossalmente, si è persa la capacità di vedere.
Entrambi gli spettacoli utilizzano anche l’uso della voce (e la Gribaudi persino un fittizio – ossia, retorico – scambio con il pubblico) che, però, spesso non aggiunge valore o complessità al gesto o al movimento nello spazio ma rende ridondante il gesto stesso, quasi che la danza non si fidasse più del proprio linguaggio per comunicare universi di senso (si notino, ad esempio, nel primo, il messaggio – tra l’altro non conseguente con le Grazie del titolo – di “you have the power” e, nel secondo, la scena mimata e recitata tra madre e figlio).
Un terzo punto in comune è il moltiplicarsi dei finali.
Se ne possono contare almeno tre in Graces e quattro in Orbi.
Se l’effetto falso finale provoca, nel primo spettacolo, un susseguirsi di applausi, l’esito è comunque una diluizione del messaggio che, alla fine, nelle divagazioni – o variazioni sul tema – finisce per perdersi.
Gribaudi gioca con l’idea delle Tre Grazie (del Canova) con una serie di quadri ironici, per due terzi dello spettacolo, e non si capisce perché a un certo punto quegli stessi quadri, prima, si trasformino in pose plastiche di nudo; poi, in scene di combattimento (fra wrestler o gladiatori non è dato sapere) e, infine, in scivolate sull’acqua del tutto estemporanee. L’insieme condito dal solito cambio di costumi (qui più succinti che mai) a vista.
In Orbi, dopo una prima parte coesa, poeticamente ed esteticamente (il riferimento a Bruegel va da sé), si affastellano i cambi di costume a vista e le variazioni sul tema che rendono sempre più pesante e macchinoso lo svolgersi del racconto, quasi ci si trovasse di fronte a un autore particolarmente prolisso che vuole essere certo che il proprio messaggio arrivi o a un Bardo, costretto a ripetersi perché sa che gli spettatori, durante lo spettacolo, potrebbero prendersi dei tempi per gozzovigliare distrattamente.
Anche le citazioni iconografiche colte abbondano in entrambi i lavori e, combinazione vuole, che in Orbi non sfugga, ad esempio, il bacio di Amore e Psiche del Canova in varie declinazioni.
I sentieri della danza contemporanea italiana, sebbene tentino di battere sempre nuove strade, pare che finiscano per girare un po’ a vuoto, persi nella foresta di un nuovo linguaggio che raramente affiora alle labbra – o sulla punta delle dita.
Simona M. Frigerio
Visti a Inequilibrio Festival, Castiglioncello (LI), venerdì 28 giugno 2019