Quando un giovane Festival, quale è oggi Vicenza in Lirica, ha il coraggio e la forza creativa di produrre una nuova edizione musicale di una partitura poco nota del ‘700 sa di porsi come Davide di fronte a Golia: mille i pericoli e le insidie da fronteggiare ma, se munito di ottima mira, esso può mutarsi in efficace fionda e, con appassionata determinazione, affrontare con la necessaria professionalità e misura la difficile sfida.
Stiamo parlando della nuova edizione preparata da Franco Rossi e Francesco Erle de “La Diavolessa” di Baldassarre Galuppi su libretto di Carlo Goldoni che ebbe la sua prima rappresentazione assoluta a Venezia presso il Teatro di S. Samuele nel novembre del 1755.
Se escludiamo una sua interessante ripresa, seppur tagliuzzata e modificata anche nella strumentazione, prassi consueta in quel periodo, realizzata nel 1952 al Teatro La Fenice con la direzione di un giovane Carlo Maria Giulini ed un debuttante Sesto Bruscantini, l’interessante partitura di Galuppi poteva dirsi praticamente sparita dalle nostre scene; meritoria appare dunque la scelta di Vicenza in Lirica e del suo direttore artistico Andrea Castello di presentarla al pubblico. Credo infatti che proprio in questo risieda oggi il valore aggiunto di un Festival: proporre ad un nuovo pubblico partiture per molti versi dimenticate, in una veste musicologicamente rinfrescata ed approfondita, offrendole così ad un ascolto e ad una sensibilità tutta contemporanea.
In questa particolare occasione il lavoro è stato assolutamente capillare sotto il profilo musicale, mentre dal punto di vista teatrale ci si sarebbe forse aspettata maggiore freschezza nell’invenzione scenica, nonostante lo spazio dello splendido Teatro Olimpico risulti molto ‘ingombrante’, vincolando spesso la chiave registica originale che rischia di trovarsi imprigionata in una gabbia dorata dalle sbarre troppo strette.
Detto questo, occorre sottolineare che la regia creata da Bepi Morassi si muove all’interno di una scatola in cui ciò che si cerca di veicolare è il fantastico ed immaginario universo goldoniano, in cui ogni cosa è accennata e si sviluppa in scena solo grazie a poche pedane e due mimi (Luca Rossi e Francesco Motta) che hanno il compito di guidarci attraverso il labirinto della nostra personale fantasia creativa.
Il lavoro con i cantanti risulta indubbiamente rigoroso e ben concentrato sui caratteri, ma, a parte qualche buon momento (la prima aria del Conte Nastri in cui si gioca sul divismo insito nelle iconografie gestuali delle performance di tutti tempi), stenta a decollare veramente, inchiodando gli interpreti più agli schemi dell’Accademia che ad una più libera creatività teatrale.
Sono convinta che una lettura più incentrata sulla qualità del libretto, che Goldoni scolpisce alternando raffinatissimi tratti a china con altri di una fresca e complice guasconeria, ne avrebbe attualizzato il messaggio, sviluppandone la fresca e dinamica drammaturgia.
Preziosi i costumi realizzati da Carlos Tieppo che sembravano perfettamente dialogare con i caratteri dei singoli personaggi in uno scambio stilisticamente assai raffinato.
Eleganza sviluppata al massimo dal M.Erle (un peccato non poterlo inglobare nella pièce, data la fresca aderenza alla pagina musicale di un gesto danzante che si sposa con una passione rigorosa giungendo sempre potentemente al pubblico) attraverso un lavoro imponente che analizzava la partitura isolandone le caratteristiche e le sempre nuove e differenti dinamiche musicali e teatrali .
Uno dei punti di forza del Festival Vicenza in Lirica è l’attenzione per i giovani artisti: mediante borse di studio e master di alto livello esso cerca, dal suo esordio, sempre di sostenerne e supportarne la preparazione, fornendo loro anche maggiore visibilità.
La giovinezza, in casi come questo, può non essere però una caratteristica esclusivamente positiva ed una maggior maturità artistica e musicale avrebbe certo giovato nel suo complesso a tutti i componenti del cast: Ettore Agati (eccellente Conte Nastri), Arlene Miatto Albeldas (esuberante Dorina, caratterizzata da un singolare timbro brunito), Omar Cepparolli (un Giannino disinvolto e vocalmente ben delineato), Lucia Conte (briosa Ghiandina), Lucas Lopes Pereira (Falco), Stepan Polishchuk (simpatico ma convenzionale Don Poppone) e Ligia Ishitani Silva nella parte della Contessa la cui impegnativa tessitura ne metteva in evidenza la tecnica ma altresì una vocalità solo in parte corposa ed omogenea.
Un’operazione impegnativa e rischiosa dunque, realizzata ed impostata con rigore a cui forse è mancato quel “quid” che ne avrebbe determinato la completezza artistica ma che ha registrato un importante successo di pubblico che gremiva il teatro Olimpico in ogni ordine di posti; un buon risultato per il Festival che sembra crescere ogni anno fidelizzando un pubblico sempre più attento e competente.
Vicenza , 05/09/2019
SILVIA CAMPANA