Aperto dall’artista Laura Fo, che qui inaugura la sua intrigante mostra “Teatro Immaginario”, fatta di miniature di teatri tridimensionali in carta dipinta, arricchiti da quinte, scenografie e personaggi e che ci tuffano empaticamente in un teatro d’altri tempi e che conclude il Festival con l’ altrettanto empatico recital “Itinerario nel meraviglioso” dedicato alla poesia e alla prosa di Angelo Maria Ripellino, interpretato con la partecipazione di Alessandro Fo e capace di ripercorrere brani di storia italiana attraverso una rara documentazione video chiesa in prestito alla RAI, le cinque giornate del festival si sono articolate in significativi momenti/ appuntamento di forte capacità aggregativa, aldilà della visione degli spettacoli, al punto che diventerebbe quasi una forzatura recensirli singolarmente, estrapolandoli dal contesto ricco e variegato nel quale sono stati collocati.
Preferiamo perciò attraversare gli accadimenti del festival seguendo più da vicino le modalità della sua ideazione/realizzazione, più tesa al dibattito, incontro e talora scontro tra posizioni di artisti, critici ed operatori di diversa generazione.
LA RADIO WALK SHOW
Se è indubbio che il momento cardine di tutte le giornate sia stato quello pomeridiano, una sorta di convegno a tavola rotonda condotta da Carlo Infante, in cui si sono avvicendati gli interventi degli ospiti spesso sollecitati da parole chiave, è sempre merito di Carlo Infante l’importante walk show che l’ha preceduto: una sorta di camminata attraverso il dedalo di vie di San Gimignano, e che ha assecondato il concetto di verticalità del festival- ma anche urbanistico, in un percorso di salita della torre- durante la quale i partecipanti si mettevano in gioco con contributi di idee, riflessioni e dirottamenti di conversazione per associazioni di idee, sempre seguendo schemi di parole chiave proposti, grazie all’ausilio di smartphone e cuffie collegate ad una radioricevente.
Dice Carlo Infante nella presentazione: “…Saranno delle “passeggiate peripatetiche” come quelle dei filosofi greci ma molto più pop che ci aiuteranno a sgranchire le gambe e le voci, in una palestra collaborativa, perchè parlare “di fianco”, mentre si cammina, è diverso dal parlare “di fronte”, dove, incrociando gli sguardi, ci si proietta con intenzione, per sedurre o sconfiggere dialetticamente. Con i sistemi radio si potrà creare uno scambio serrato di opinioni parlando mentre si esplora la città, in un semplice training d’empatia, occasione di partecipazione più che di rappresentazione…”
Le conversazioni, duttili, interessanti e di significativo spessore che hanno attraversato con agilità ambiti esperenziali personali, ma anche nodi cruciali della storia del teatro, si sono incrociate con momenti di riscoperta del territorio, tracce ricche di valenza simbolica o più semplicemente fragranze caratteristiche enogastronomiche, un’azione di “urban experience” che da diversi anni viene proposta all’interno delle città e definita come “ambito di progettazione culturale per giocare la città attraverso le pratiche creative del performing media. Una condizione abilitante perchè la creatività sociale delle reti possa reinventare spazio pubblico tra web e territorio”.
Operazione di assoluto interesse, ci pare, tesa a colmare da un lato quel vuoto esistenziale e di contatto reale che spesso il web induce, riappropriandosi in modo creativo di una tecnologia ormai capillarmente diffusa, e dall’altro nell’inventare una nuova formula partecipativa capace di aggregare in modo motivante ( è il “motivante” la vera forza motrice) una collettività che sembra avere perso in gran parte reale capacità comunicativa.
“Mi piace pensare” dice sempre Carlo Infante “di usare in modo diverso ciò che di norma viene banalmente usato dai gruppi di turisti con guida che attraversano le città” .
Una risposta diversa, ci pare, con una identica tecnologia.
GENERAZIONI A CONFRONTO: STORIA, PRESENTE E SCENARI FUTURI
Il ricco dibattito del pomeriggio, è probabilmente stato il perno centrale del festival, il luogo privilegiato d’incontro tra la forte necessità di non disperdere il bagaglio d’esperienza teorico/pratica che tra ’60 e ’70 ha assunto una valenza sociale così forte, di liberazione della coscienza e del corpo da indurre una rivoluzione culturale, – si è presi come punto di partenza il “Manifesto d’Ivrea del 1967”- e le esigenze delle nuove generazioni, più tese ad un diritto di esistere che ad un confronto collaterale e a ritroso.
Significativi ed estremamente chiari alcuni interventi di giovani attori presenti, nel rifiuto esplicito di interesse per ciò che è stato, un taglio netto col passato per potersi occupare maggiormente del presente vivendolo e attraversandolo: nota inquietante che sottolinea ancora di più la frattura generazionale.
Ci si chiede, aldilà delle differenze estetiche e di linguaggio delle nuove produzioni teatrali, quale la garanzia per un futuro se ci si accontenta di cavalcare l’onda nel sotteso rifiuto di una ideologia, tema che ha scatenato diversità di opinioni sull’accezione del termine, per alcuni ancorato al “ vecchio modo di guardare alla realtà”, per altri irrinunciabile interpretazione del presente, nucleo ideativo ( come la raccolta di idee e parole input del convegno) capace di dare una direzione.
Diverse le parole chiave ( o le parole faro) prese in considerazione, ad individuare i punti nodali di discussione, gli incroci significanti con cui ha fatto i conti il teatro nella storia della sua evoluzione, per comprenderne soprattutto la funzione, dal primitivo ruolo di alfabetizzazione che lo sancisce più come forma comunicativa che artistico espressiva. Anche qui opinioni contrastanti.
Ci si è confrontati sui termini: “Avanguardia”, con riferimento al Manifesto d’Ivrea del ’67, “Cittadinanza” per individuare nuove forme di innovazione sociale tese ad “accendere” la partecipazione, “Vocazione”, quando la casualità intreccia la necessità nel “fare teatro”, “Strategia” legata alla eccezione culturale italiana, rivendicazione sia nei confronti istituzionali che individuazione di nuovi modelli quali le “comunità temporali”, cui si può anche collegare il termine “Resistenza”. Né sono mancati interventi di “rassegnato disfattismo”, con letture pessimistiche di un teatro in irrimediabile declino.
Per me, vissuta dall’interno, bella e coinvolgente esperienza, occasione di arricchimento pur nella consapevolezza della difficoltà ( ma non impossibilità come alcune realtà teatrali stanno dimostrando in Italia con esperienze intrecciate al territorio) di individuare modelli organizzativi teatrali capaci di funzionare ad ampio spettro, altro interessante obiettivo del convegno.
GLI SPETTACOLI
Inevitabile conseguenza della diversità di opinione teorica intorno al tema del teatro, ma soprattutto strettamente intrecciata al rapporto attore/spettatore, in una formula più o meno partecipativa, sono parsi gli spettacoli, che hanno a mio avviso quasi tutti, tra quelli visti nelle giornale di venerdì e sabato, pagato lo scotto di una difficoltà empatica con il pubblico più ampia, trasversale anche alle generazioni, pur con dei distinguo.
L’empatia, che a mio personale giudizio nasce spesso dalla forza evocativa ed immaginativa di uno spettacolo, tale da suggestionare l’immaginario dello spettatore attraversandolo e portandolo verso altre dimensioni, è stata avvertita in due spettacoli : il “ Monsieur Monsieur” di un grande Micha van Hocke, che ha saputo dosare eleganza, ironia, ritmo, in un cabaret sospeso tra affascinanti atmosfere decadenti e originali impulsi vitali attuali, cui riconosciamo la scelta di un cast di ballerini di livello e di musiche fortemente suggestive, e “Operetta burlesca” in prima regionale di Emma Dante, che con questo lavoro si riscatta rispetto al precedente “ Trilogia degli occhiali” che non ci aveva del tutto convinto.
Creato nell’81 a Bruxelles, Monsieur Monsieur tra l’ispirazione di una raccolta di poesie di Jean Tardieu “ Le fleuve chaché”, regalo del padre al coreografo e a cui Micha van Hoecke lo dedica.
Lo spettacolo è recitato in francese e mantiene della lingua originaria il ritmo e la musicalità.
Completamente centrato nell’attualità il lavoro di Emma Dante: la storia di un uomo nato femmina, una donna in un corpo sbagliato.
In questo nuovo lavoro “Operetta burlesca” il linguaggio estetico e quello più provocatorio che contraddistinguono i lavori di Emma Dante e per i quali si è imposta, si fondono in un bel equilibrio. Le colorate essenziali scenografie che segnano in originalità e forza d’impatto i suoi spettacoli vengono finalmente agite e la bravura attoriale, particolarmente quella del protagonista, contribuisce ad alzare il livello complessivo della piece. Scatta l’empatia con lo spettatore, meno invece quel potere evocativo che rimane più su un piano emozionale immediato, catturato più dalle atmosfere sceniche che da un incontro “mentale”, limite dello spettacolo che odora di “ammiccamento”. ( Ma questo a volere spaccare il capello).
Nel lavoro “ Mi chiamo Dino… sono elettrico” di Giardino Chiuso per la regia di Tuccio Guicciardini riconosciamo una continuità nei contenuti con “Il supermaschio”, spettacolo precedente, nell’interrogarsi sulle tematiche culturali contemporanee. In entrambi le allusioni sono evidenti ,anche se non dichiarate nella drammaturgia e la scelta nello specifico di ripercorrere la biografia di Dino Campana in qualità di folle e di poeta non può non rimandare all’idea di un oggi contemporaneo in cui tanto l’artista quanto la poesia sono bersagli di emarginazione. Qui la drammaticità esasperata dell’interprete, unita al luogo sbarrato in cui la piece avviene, rischia però di intrappolare lo spettatore, schiacciando piuttosto che liberando energia comunicativa.
Delle produzioni più “giovani” abbiamo visionato per la danza “L’Ombra della sera- primo studio” produzione di Teatropersona con Chiara Michelini. In considerazione del fatto che è dichiaratamente uno studio in divenire, la cui versione definitiva è prevista per l’anno prossimo, ci è sembrato un lavoro coerente, senza punte di originalità ma anche privo di cadute, con un tentativo di apertura empatica al pubblico che abbiamo apprezzato, cosa invece del tutto assente nel lavoro dei due coreografi e performer Sung Yong Kim e Claudio Malangone, intrecciati in una danza impenetrabile dall’esterno e chiusi all’interno del proprio universo creativo e culturale: una chiusura ancor più sottolineata dai video intervista, parte della performance, tesa ad indagare il proprio sé intimista, emblematica proiezione di quell’atteggiamento giovanile di autoreferenzialità, espressosi anche nel dibattito.
LA PERCEZIONE CONDIVISA. APPUNTI PERSONALI.
“Orizzonti Verticali”- Arti sceniche in cantiere- Generazioni a confronto- Teatro-danza-performance- incontri- media- II Edizione, svoltasi a San Gimignano dal 16 al 20 luglio 2014, non è facilmente identificabile come Festival, al punto che gli spettacoli presenti, quelli che di norma ne formano l’ossatura e lo qualificano, qui diventano appendice, corollario, contorno di senso, a concludere un percorso che accade altrove.
Accade nelle conversazioni nomadi con ascolti via radio e web abilmente condotte da Carlo Infante, che giocano a rimpiattino con la parte conscia e non conscia dei partecipanti, a tratti spiazzanti ma senza mai spingere troppo, accade nelle tavole rotonde alla ricerca della propria ed altrui individualità, accade anche nelle pause delle conversazioni e in quelle libere, scandite dai programmi della giornata, e infine gli spettacoli, pretesto di confronto, fanno parte del grande gioco, quello della trasformazione, un gioco che per buona parte del tempo viene fedelmente registrato e documentato.
Dietro tutto ciò vi è una progettualità importante, un disegno raffinato capace di conciliare gli opposti: la piazza apparentemente disinteressata ed il festival, le spinte antitetiche degli spettacoli e i luoghi cui si legano, minuziosamente rintracciati e scelti.
Terminato il Festival, che pure non ho potuto seguire dall’inizio in tutta la sua interezza, mi accorgo di un filo sottile, impercettibile eppure indistruttibile che lega ogni momento, ogni luogo, ogni azione, ogni conversazione, rimandando il tutto ad un mondo parallelo, in attesa di definizione.Quel filo sottile potrebbe venire paragonato ad una scia di fumo per lo sguardo, di profumo per l’odorato, una corda trascinante per il tatto e si manifesta all’udito come linguaggio. Si è quindi imposto senza apparire, percorso tra i percorsi, unendo tra loro voci, pensieri, intenzioni ed azioni.
Nella “verticalità” delle intenzioni, del desiderio di colmare gli scarti generazionali, di creare un continuum tra passato e presente in prospettiva futura, il tema” tempo” si intreccia strettamente al tema” luogo”: l’uno non esiste senza l’altro, come il tempo anche il luogo qui ha il carattere della convenzione e la sua fisicità appartiene più alla sfera della percezione condivisa.