A conclusione della stagione 2019 e, nello specifico, del percorso autunnale che Fondazione Arena di Verona ha dedicato alla rilettura, o “rivisitazione” come anche si usava dire, di “classici” del melodramma italiano in chiave anticonvenzionale – innovativa, attualizzata, moderna, irriverente, dissacrante, contemporanea… — sul palcoscenico del Teatro Filarmonico, dal 15 al 22 dicembre, è stata riproposta Butterfly di Giacomo Puccini.
Opera più volte rappresentata in Arena (ricorderemo la più recente edizione, quella firmata da Franco Zeffirelli nel 2004 e successivamente ripresa in altre quattro stagioni) ma molto poco nella sala Filarmonica, dopo quasi trent’anni di assenza (esattamente dal 1991) vi ritorna nel nuovo allestimento coprodotto da Fondazione Arena con il Teatro Nazionale croato di Zagabria per la regia di Andrea Cigni, al suo esordio veronese con lo scenografo Dario Gessati e la costumista Valeria Donata Bettella, accanto all’areniano Paolo Mazzon per il comparto luci.
Tutta la vicenda si svolge in una foresta di betulle: più un luogo dell’anima che un sito prettamente geografico. Nell’immaginario collettivo infatti (confermato anche dai commenti colti tra il pubblico in sala) questi alberi vengono collegati piuttosto alla tundra siberiana che non al Paese dei crisantemi. Ma tra quei fusti dritti e candidi, quasi una sorta di incombente e claustrofobico colonnato mutante nell’assemblamento e nelle luci a seconda delle situazioni e nel quale soltanto sporadicamente — e pleonasticamente, ci viene da aggiungere — si inserisce l’improbabile e sproporzionata dimora di Cio Cio San, trova adeguato albergo la variegata gamma di affetti, passioni, sogni, illusioni, delusioni, tradimenti, bugie di cui si nutre la storia.
Soprattutto si amplifica e si enfatizza il senso di devastante solitudine e isolamento della protagonista, destinata a soccombere all’inesorabile legge dell’ikigai (l’ideogramma che lo rappresenta compare sul sipario) che porta a perdizione chiunque si lasci sopraffare dalle proprie emozioni e desideri.
I costumi – ibridi tra tradizione e generica essenzialità, quelli giapponesi; anni ’40-60, quelli occidentali – bene rimarcano l’insanabile dicotomia tra i due mondi coinvolti.
Non mancano, peraltro, piacevoli trovate che contaminano le due culture. Come certi passaggi mimici con l’uso di maschere, evocativi con occhio altro di modi peculiari dei teatri storici giapponesi. O l’inserto in chiave psicanalitica, che vede proiettati sul figlio le frustrazioni e i sogni irraggiungibili della madre, iconograficamente rappresentato da un esotico aquilone, ovviamente inafferrabile e rigorosamente a stelle e strisce. Si possono ravvisare anche colte suggestioni dalla filmografia giapponese anni ’50-70.
La componente più debole dello spettacolo ci è parsa quella musicale. A cominciare dall’orchestra della Fondazione diretta da Francesco Ommassini.
Tempi talora accelerati e, soprattutto, volumi sonori costantemente eccessivi hanno vanificato ogni eventuale ricerca timbrica e melodica sulla lieve, preziosa partitura pucciniana, penalizzando, inoltre, i cantanti costretti a forzare l’emissione e a compromettere, così, smalto, dizione e intonazione. Disagi che si sono evidenziati soprattutto nella prima parte della rappresentazione. Daria Masiero (che il 22 sostituiva la giapponese Yasko Sato, indisposta) è stata Butterfly non del tutto convincente; una fisicità e, soprattutto, una vocalità più fresca l’avrebbero aiutata a calarsi con maggiore credibilità nel ruolo.
Maggiormente credibile, nei panni ingrati di Pinkerton, Raffaele Abete, di cui a tratti — sonorità orchestrali permettendo – si è colta una gradevole vocalità.
Di valore lo Sharpless di Mario Cassi. Di routine tutti gli altri.
Modesto l’apporto del Coro preparato da Vito Lombardi.
Visto il 22 dicembre
Franca Barbuggiani