Intrigante messa in scena “ Da Lontano. Chiusa sul rimpianto” al Teatro Camploy di Verona, produzione di Pierfrancesco Pisani e Isabella Biorettini per Infinito Teatro e Argot Produzioni in collaborazione con Riccione Teatro.
Lucia Calamaro ne firma regia e testo, assolvendo entrambi i compiti in modo più che soddisfacente.
Lo spettacolo è stimolante, non solo per l’originalità dell’idea, ma soprattutto per la sua raffinata conduzione: una figlia ora adulta e psicoterapeuta cerca di recuperare il tempo perduto con la madre, nel tentativo di fare oggi ciò che un tempo, bambina, non poteva, cioè sostenerla e aiutarla.
La regista immagina un luogo imprecisato in cui l’incontro avviene, oltre lo spazio e il tempo così come comunemente lo conosciamo, e proprio nella delineazione di questo tempo e questo spazio sta, a mio avviso, il valore di questo lavoro, che diventa occasione non solo per scandagliare la coscienza, i sentimenti e frugare tra i pensieri nascosti, ma anche per dilatare il tempo, sospenderlo, soggettivizzarlo alla maniera di Proust.
Succede poco nella scena essenziale di katia Titolo , a parte l’intensa interpretazione di Isabella Ragonese, che dialoga con la madre (Emilia Verginelli,) attraverso un muro, con un’unica porta difficilmente valicabile, ma che permette piccoli scambi affettuosi, il tutto sottolineato dalle luci di Gianni Staropoli.
Aldilà, la madre, impegnata in misteriosi lavori di muratura, è sofferente e contemporaneamente rassicurante.
Ma è proprio quel muro il vero protagonista di questo lavoro, giocato tutta sulla tensione comunicativa che si crea tra la figlia e la madre e che permette al testo raffinato, puntuale e delicato di Lucia Calamaro di diventare a tratti piacevolmente leggero e imprevedibile, di giocare con il clima surreale di nuovi panorami che incombono.
Saremmo stati curiosi di vedere quali altri anfratti avrebbe percorso sulle vie del surreale la mente creativa della regista-autrice, ma ad un certo punto la porta si apre, la madre entra nella stanza/ studio della figlia, la tensione finisce e i due tempi/ luoghi si sovrappongono.
Avrebbe potuto essere la catastrofe drammaturgica, diventare la banale chiusura di un quadretto familiare. Invece il gioco riprende con una bella intuizione di regia. La scena si trasforma in film; la madre liberata ora torna nella memoria mentre la figlia è alla finestra, quell’unica finestra possibile che per tutto il tempo dello spettacolo la madre ha costruito: la finestra dalla quale le cose volano via.
Continuando la nostra indagine sul rapporto attore/spettatore, la qualità del testo a tratti sussurrato e la pertinente adesione emotiva delle interpreti non inducono ad ammiccanti concessioni al pubblico.
Sarebbe stato facile scivolarci parlando di sofferenza e di malattia. Invece lo spettacolo mantiene il giusto distacco. L’attrice conserva un’aurea di riserbo pudico inviolabile che il pubblico rispetta, nonostante simpatiche finestre di apertura: l’attrice si rivolge direttamente agli spettatori comunicando il proprio numero di telefono in caso di necessità terapeutiche.
Bel lavoro di senso e spessore.
Applausi e consenso unanime.
Visto il 20. 01.2022
Emanuela Dal Pozzo