di Emanuela Dal Pozzo
Cerchiamo di rispondere (momentaneamente) con le parole di Eugenio Barba che si interroga sul rapporto tra regista e spettatore e sulle tipologie di spettatori che il regista individua.
LO SPETTATORE SECONDO EUGENIO BARBA
(da “ Teatro”- solitudine, mestiere e rivolta- Edizioni di Pagina – 2014)
“Nel corso del lavoro per lo spettacolo, deve esserci un momento in cui il regista passa dall’altra parte e diventa il rappresentante degli spettatori: deve essere leale nei loro confronti come deve esserlo nei confronti degli attori.”
“Si può dire il regista è il primo spettatore. O ancora: il suo compito consiste nel mettere in scena l’attenzione dello spettatore attraverso le azioni dell’attore. Ma di quale spettatore stiamo parlando?”
“ Credo sia necessario assumere il modo di reagire di almeno tre spettatori, e sapersene immaginare un quarto. Chiamo i quattro “spettatori base”:
- il bambino che vede le azioni alla lettera
- lo spettatore che pensa di non capire ma a che sua insaputa danza
- l’alter ego del regista
- il quarto spettatore che vede attraverso lo spettacolo come se esso non appartenesse al mondo dell’effimero e della finzione”
“ Il bambino che vede le azioni alla lettera non può essere sedotto da metafore, allusioni, immagini simboliche, citazioni, astrazioni, testi suggestivi. Osserva non ciò che si rappresenta ma ciò che si presenta”
“ Il secondo spettatore pensa di non intendere il significato dello spettacolo. Possiamo immaginare che non conosca la lingua in cui parlano gli attori né riconosca la storia. Sa riconoscere però che questo lavoro è “fatto bene”, curato nei dettagli come il manufatto di un maestro artigiano di quelle culture dove non si fa distinzione tra arte e artigianato. Soprattutto si lascia contagiare dal livello pre-espressivo dello spettacolo, dalla danza, dall’energia degli attori, dal ritmo che dilata lo spazio e il tempo dell’azione.”
“Lo spettatore alter ego del regista è minuziosamente informato di tutti i contenuti dello spettacolo, dei testi, degli avvenimenti a cui si riferisce, delle scelte drammaturgiche, delle biografie dei personaggi. Lo spettacolo è per lui un territorio in cui le tracce del passato prossimo o remoto danno vita a nuovi contesti e inaspettate relazioni. Il suo sguardo penetra questa vivente archeologia passando dagli strati superiori a quelli più profondi….”
“Questi spettatori non sono pure astrazioni, ma personificazioni a cui il regista deve prestare volti e nomi precisi. Anche se non sono spettatori reali, il regista deve potersi immedesimare: sono personae ( maschere, ruoli) che indossa mentalmente per uscire dall’immedesimazione in se stesso e nei suoi privati riflessi di spettatore. Il regista si concentra ora sull’uno, ora sull’altro dei suoi diversi spettatori base, intreccia e accorda le loro reazioni così come intreccia e accorda le azioni degli attori.”
“ Il quarto spettatore è quasi muto. Fra sé e sé ride del velo di Maya dello spettacolo. Osserva quello che nessuno spettatore può materialmente vedere: se il ricamo della camicia di un personaggio, pur essendo inutile perché nascosto dalla giacca, è stato ricamato perché ha un valore per il singolo attore e il regista ….Il quarto spettatore è il collaboratore che ci aiuta a negare il teatro facendolo.”
Anche il critico teatrale è prima di tutto uno spettatore. Quale spettatore sceglie di essere? E perché sceglie di essere proprio quel tipo di spettatore? In quale funzione si colloca? Accanto al regista o accanto allo spettatore? A chi si rivolge e perché?
Verrebbe naturale ( e pensiamo che buona parte della critica “colta” lo faccia) sentirsi vicini allo spettatore “alter ego del regista”, colui che, a differenza dello spettatore sprovveduto, abbia gli strumenti e le conoscenze per percorrere con agilità lo spettacolo, disseminando la propria recensione di citazioni e allusioni non direttamente visibili, dipanando matasse apparentemente ingarbugliate, chiarendo nodi e nessi non apertamente leggibili, magari svelati dalla voce stessa del regista, dalle sue dichiarazioni verbali e scritte in merito alle intenzioni della messa in scena, dei temi toccati o allusi.
Ma siamo poi certi di saper separare ciò che è intenzione dichiarata sulla carta e ciò che si riesce realmente a comunicare in scena? Siamo certi che il compito di un critico sia sempre e comunque quello di schierarsi dalla parte di chi crea? Che un attore o ancor più un regista, in quanto tali, vadano difesi sempre e comunque, pena la scomunica del critico? (se non apprezzi è perché non capisci).
O forse non sarebbe il caso di riflettere sugli “spettatori base” di Barba e fare un passo indietro, mettendosi nei panni di ciascuno, per valutare se davvero un lavoro sia davvero comunicativo e capace di parlare a tutti, certamente con chiavi di letture diverse, rispettando quel dialogo interattivo tra regista e spettatori?
E se poi la recensione di un critico non fosse scritta in modo chiaro, comprensibile a tutti, a chi servirebbe, se non al critico stesso e alla sua cerchia elitaria, per autoincensarsi?
E non è forse giusto che la critica di uno spettacolo si rivolga sia al pubblico eterogeneo, per aumentarne la comprensione, che agli artisti coinvolti, per suggerimenti costruttivi o per evidenziarne lacune?
Perché il regista, il critico teatrale e gli spettatori non sono categorie astratte, chiuse nel proprio mondo( chi a dispensare saggezza, chi a raccoglierla), ma figure interattive che dialogano tra loro e che cambiano, crescono, si confrontano, in percorsi accidentati ( la conoscenza è complessa), che procede anche per prove ed errori ( anziché per mode), con un teatro che si racconta ( non che si celebra).