Difficile dare un giudizio univoco sul secondo romanzo di Mariapia Veladiano “Il tempo è un Dio breve” ed. Einaudi 2012, dal momento che viaggia su due distinti binari passibili di diversa valutazione: contenuto e apparato espositivo.
Il registro espressivo, controllato, si convoglia in una struttura linguistica elegante, curata in tutti i suoi aspetti. L’impianto lessicale è colto e delicato ai limiti della poesia, e si organizza in una forma pulita e fluida, con picchi di preziosa raffinatezza.
Dal punto di vista del contenuto, invece, l’autrice sembra far leva sulla drammaticità degli eventi, che si susseguono a catena in un inesorabile climax ascendente di tragicità, ai limiti della verosimiglianza (sebbene le disavventure della vita non debbano mai stupire), per sfociare in un finale commovente e “fiabesco” allo stesso tempo.
Poco accettabile, quindi, la vicenda narrata, per l’esasperazione di contenuti e contorni: incontri provvidenziali, malattie inesorabili, personaggi incompiuti e incomprensibili, decisioni al limite della saggezza ascetica.
La sensazione è quella di compiere un viaggio spirituale insieme alla protagonista, Ildebranda, che ci guida nell’intimo cunicolo del suo animo.
Ildebranda fugge e rincorre, affronta e supera, lascia e conquista, rimanendo sempre fedelmente salda ad un unico grande amore, quello per il piccolo Tommaso, che va oltre la vita, soprattutto quando incontra la sofferenza.
Nei momenti di angoscia essa giunge inevitabilmente all’infinito, desidera credere e giustificare una presenza spirituale che “si nasconde nella brezza” e a volte appare troppo indifferente al dolore umano, ma che probabilmente non può alleviare perché , usando le parole dell’autrice: “la sofferenza appartiene anche a Dio”.
Non ho compreso quanto e se ci sia dell’ autobiografia nella storia narrata, certo è che si ha la percezione che qualcosa leghi l’autrice al personaggio femminile, o forse alle sue riflessioni e ai contenuti dei numerosi monologhi interiori che costituiscono la vera ossatura del racconto, quasi privo di dialoghi. E’ in questo contesto che viene a galla la sensibilità della scrittrice in stretta connessione con i suoi studi filosofico-teologici.
Veladiano trascina con garbo in riflessioni profonde, pensieri cosmici con cui, prima o poi, ci si deve scontrare: prima fra tutte la paura della morte, facendo però ricorso, a mio avviso, ad un’ eccessiva intensità drammatica.
Il concetto del “dopo” scompare nell’attesa della fine e si annulla nell’immensità del vuoto senza tempo e senza materia, voragine riempita da Ildebranda con la sua sete d’ infinito che sembra evolvere in trepida speranza, comportamento che in alcuni punti ha poco di umano.
Mariapia Veladiano svolge la professione di preside dopo anni di insegnamento, e collabora a diverse testate tra cui “La Repubblica”. Con il suo primo romanzo “La vita accanto”, pubblicato da Einaudi nel 2011, ha vinto il Premio Calvino 2010.
Nel 2014 ha dato alle stampe un saggio “Parole di scuola”, libere riflessioni sulla scuola.
Daniela Marani