TESTI DI EMANUELA DAL POZZO- IMMAGINI DI ANTONINO CALOGERO
LA PARABOLA DELLA CRISI DEL TEATRO
In quel tempo gli attori erano a caccia di spettatori. Tutti infatti preferivano rimanersene a casa davanti al televisore guardando i propri beniamini, così le sale dei teatri erano vuote.
“ Quanto vale ogni parola detta in Tv?” si domandavano i registi, sapendo che i divi televisivi erano super pagati.
Fu allora che un direttore artistico ebbe un’idea:
“ Anche noi possiamo pagare le parole “ disse “ perché sappiamo benissimo che una non vale l’altra. Alcune hanno successo, altre no e in base alla nostra esperienza potremmo addirittura dare loro un valore, indipendentemente dall’attore che le pronuncia.”
Il direttore artistico emise quindi un bando per giovani promesse, assegnando 50 euro per ogni parolaccia presente nello spettacolo, 100 euro se accompagnata ad un’azione provocatoria, 150 se sottolineata da un gesto irriverente verso la religione.”
Le proposte artistiche piovvero e i teatri ricominciarono a riempirsi.
Fu un successo.
LA PARABOLA DEL RICCO E DEL POVERO
In quel tempo esisteva una città tutta fiorita ed eleganti case con balconi che si specchiavano nell’acqua. I turisti guardavano con estatica meraviglia le variopinte ville che si snodavano lungo le vie e non smettevano di lodare la bellezza, la pace e la serenità di quel luogo.
“ Come mai tanta bellezza proprio qui e tutta insieme?” chiedevano stupiti i visitatori e il vecchio saggio rispondeva:
“ Perché qui risiedono i più importanti critici del regno, che lodano l’arte e il teatro”
Un giorno un curioso, inoltratosi tra le vie intricate della città, vide improvvisamente alcune catapecchie addossate l’una all’altra.
Tornò quindi stupito dal vecchio saggio e gli chiese:
“ Di chi sono quelle costruzioni fatiscenti, che sembrano dover crollare da un momento all’altro?”
“ Sono dei critici che pubblicano recensioni negative del teatro e dell’arte” rispose il vecchio saggio.
LA PARABOLA DELL’INCIDENTE
In quel tempo gli attori tacevano.
Stavano zitti non perché non sapessero parlare, ma perché non avevano nulla da dire.
I critici erano disperati.
“ Ti prego, dì qualcosa” supplicavano contriti all’uno e all’altro, “ Se parli ti diamo le caramelle” li lusingavano, “ Sappiamo che non ci deluderai” tentavano, ma qualsiasi tentativo di convinzione, con premi o lusinghe, falliva miseramente.
Un giorno improvvisamente accadde una cosa imprevista: un attore parlò.
I critici si precipitarono ad ascoltarlo.
“ E’ mio!” disse il primo critico arrivato sul luogo.
“ Sono io che l’ho convinto!” rispose il secondo
“ Solo io so perché ha deciso di parlare e conosco il senso di ciò che dice” argomentò il terzo.
Presero quindi a litigare, prima a parole, poi venendo alle mani.
Non si sa come fu comparve una pistola e nella colluttazione partì un colpo che trafisse il cuore del povero attore e l’attore morì.
Tutto il Regno sprofondò nel silenzio e fu annunciato il lutto nazionale.
LA PARABOLA DELLE PAROLACCE
In quel tempo tirava un’aria strana, un’aria di regressione. Gli adulti sembravano avere perso il senno. Anche il linguaggio era regredito. Moltissime parole erano state dimenticate, perché non si sentiva più la necessità né di scriverle, né di dirle.
Un giorno un’improvvisa e immotivata gioia illuminò un’attrice quando annunciò alla stampa che il suo prossimo spettacolo sarebbe stato pieno di parole.
I critici ammutolirono. Con l’avvento della tecnologia i testi erano considerati obsoleti e guardarono con terrore quell’attrice così ingenua da proporre qualcosa di assolutamente irrilevante, qualcosa che avrebbe segnato irrimediabilmente la fine del suo successo e della sua carriera.
Ma l’attrice li tranquillizzò.
“ Il mio non sarà un testo normale, sarà un lungo elenco di parolacce: tutte le parolacce che si conoscono, tutte le parolacce che si sono dette e che oggi rischiamo di dimenticare.”
I critici insieme ai bambini esultarono.
LA PARABOLA DELL’ONNIPOTENZA
In quel tempo una città del Regno si stancò di essere una semplice città.
“ Perché dobbiamo sottostare alle regole del Regno e alle sue leggi? Vogliamo fare ciò che vogliamo, decidere noi ciò che è bene e ciò che è male, chi può abitare qui e chi no, perché la città è nostra e noi facciamo quello che vogliamo.”
Così cominciarono ad erigere delle mura invalicabili tutt’intorno, controllando le entrate e le uscite dalla città. Fecero delle nuove leggi che, a seconda di chi veniva eletto, vietava l’ingresso in città alle persone bionde, a quelle scure, a quelle anziane, a quelle povere o a quelle ricche.
Passarono alcuni anni e il malumore tornò a serpeggiare tra gli abitanti della città.
“ Perché vi lamentate?” chiesero i politici della città.
“ Si è vero, siamo i padroni della nostra città “ risposero i cittadini “ma noi vogliamo conquistare il mondo, vogliamo essere i padroni di ciò che gli altri hanno e noi non abbiamo.”
I politici si consultarono tra loro. Non potevano combattere contro il mondo intero con le armi. Se non potevano attaccare il mondo, sarebbe venuto tutto il mondo da loro, ai loro piedi. Presero allora tutti i libri fino ad allora scritti e li tradussero nel proprio dialetto.
Ora possedevano tutta la cultura del mondo, del tempo passato e del tempo presente.
LA PARABOLA DELLA CADUTA
L’urlo era diventato così famoso che non esisteva luogo in cui non se ne fosse sentito parlare.
Nei primi anni l’attore si era esibito nei teatri più importanti, poi era stato invitato in quelli minori ed ora stava esaurendo gli spazi a disposizione.
Si recò quindi dal critico che l’aveva lanciato e gli disse:
“ Ormai tutti già mi conoscono e presto mi troverò disoccupato se non propongo un nuovo spettacolo!”
Il critico ci pensò un attimo poi chiamò gli altri critici:
“ Abbiamo ancora bisogno dell’attore dell’urlo?” chiese loro
I critici risposero:
“ Certo ci farebbe comodo una nuova performance, una che ci dia modo di scrivere e guadagnare, visto che non si profila nulla d’interessante all’orizzonte!”
Chiamarono quindi l’attore e gli dissero:
“ Poiché sei un attore talentuoso e per questo abbiamo investito su di te, siamo pronti ad aiutarti e a svelarti il segreto che ti renderà un’altra volta famoso. Con la nuova performance che ti suggeriremo calcherai nuovamente le scene di tutto il mondo”
Così fecero e così fu.
Dopo qualche anno l’attore si ripresentò in cerca di nuovi consigli, perché, come la prima volta le piazze erano state tutte esaurite.
I critici risposero:
“ Cosa vuoi ancora da noi? Non abbiamo più bisogno di te. Ora dovrai arrangiarti.”
“ Ma io non so cosa deve fare un attore” piagnucolò l’uomo ormai in età matura. “ Vi ho dedicato la mia giovinezza, quando invece avrei potuto studiare e fare la mia strada!”
I critici alzarono le spalle e se ne andarono e il mancato attore rimase solo con i propri rimpianti.
LA PARABOLA DEL SUCCESSO
In quel tempo un giovane voleva fare l’attore
Lo desiderava perché voleva avere successo nella vita.
Purtroppo però appena saliva su un palcoscenico cominciava a balbettare. Balbettava ogni volta si trovava davanti agli spettatori, ogni volta i riflettori venivano puntati su di lui, ogni volta si apprestasse a interpretare un testo teatrale.
Naturalmente aveva consultato medici e specialisti ma ogni cura era risultata vana, così se ne girava afflitto tra le strade del paese.
Nello stesso paese camminava un regista in cerca di nuovi talenti.
Vide il giovane e gli chiese:
“ Perché sei triste?”
“ Voglio recitare ma non so come fare” rispose questo.
“ Oh che fortunata coincidenza. Io sto proprio cercando talenti come te.”
“ Ma io non posso fare l’attore perché balbetto in scena” rispose il giovane
“ Oh che fortunata coincidenza. Io sto proprio cercando talenti speciali, in grado di stupire. Ho la soluzione che fa per te.”
Così in breve il giovane si trovò sul palcoscenico, sotto i riflettori e attorniato dagli spettatori.
Per l’occasione del suo debutto il regista, che aveva amicizie altolocate, aveva invitato un noto critico teatrale.
Quando il giovane attore iniziò a balbettare fu il trionfo.
Il critico scrisse che finalmente qualcuno aveva avuto il coraggio di scardinare le vecchie e desuete regole del linguaggio, che era nata una nuova promessa del mondo del teatro, che si stava aprendo un nuovo orizzonte.
Il giovane attore calcò le scene più importanti, acclamato e conteso.
Accorsero altri critici per intervistarlo. Uno di loro gli chiese:
“ Lei ha inventato un linguaggio nuovo, come altri in passato. Ha preso spunto da Beckett, da Ionesco?”
E il giovane rispose:
“ No, mi spuntini no ghe ne fasso, sto in dieta, si a volte sbecheto calcossa, ma a casa mia, perché non esco.”
LA FESTA ALLO SPETTATORE
In quel tempo, essendo gli attori in via d’estinzione, i critici teatrali cominciarono ad occuparsi degli spettatori. Non che la schiera fosse folta ma certamente, pensavano, più numerosa, almeno potenzialmente, perchè si sa che i critici hanno la possibilità di vedere cose che altri non vedono.
Così organizzarono una grande festa dedicata allo spettatore, pensando di far loro cosa gradita.
Si sa che oggi l’unica cosa che distingue un attore da uno spettatore è la timidezza, quel riserbo personale che non induce ai selfie, all’esibizione, alle pubbliche autobiografie, al facile comparire in pubblico e nonostante il pullulare di corsi di dizione, di teatro, di autostima, di scrittura creativa e drammaturgica, i critici pensavano– ne erano certi- che tra la popolazione vi fossero rimasti ancora gli irriducibili, gli spettatori appunto.
Il problema vero era stanarli, giacché se continuavano ad essere semplici spettatori era solo perché non amavano la pubblicità, guardavano con sospetto ai social, non collezionavano like, in definitiva preferivano l’anonimato alla fama.
Decisero quindi di accoglierli in una festa loro dedicata.
Gli spettatori erano inquieti. Anche se nel programma era chiaro che non avrebbero dovuto esibirsi temevano l’imprevisto, tanto caro ai critici, poi, rincuorati nel vedere tra i tanti convegni, dibattiti, approfondimenti qualche spettacolo d’attore, alcuni si lasciarono convincere e decisero di partecipare.
L’avrebbero fatto alla chetichella, in incognito, con occhiali scuri e passo felpato, pronti alla fuga se le cose si fossero messe al peggio.
Ma i critici , si sa ,sono più intelligenti degli spettatori e avevano preso le proprie contromisure.
Non appena raggiunto il numero minimo di partecipanti, scattarono le trappole: nella stanza totalmente buia comparvero un’inferriata là, una porta chiusa in fondo, una sirena d’allarme qualora un certo limite si fosse valicato. Gli spettatori, imbrigliati nello spazio e nel tempo non ebbero vie di fuga e dovettero soggiacere.
“Performance perfettamente riuscita” declamarono i giornali il giorno dopo sottolineando con enfasi il “tutto esaurito”.
DEL TEATRO
In quel tempo gli allievi andarono dal vecchio saggio e gli chiesero:
“ Ci sai dare una definizione del teatro d’oggi?”
Il vecchio ci pensò un attimo e rispose:
“ Oggi il teatro è uno strumento di controllo”
“ Della voce e del corpo?” chiesero i giovani
“ Niente affatto. Uno strumento di controllo politico” chiarì il saggio.
IL TEATRO E L’IMPERATORE
In quel tempo gli allievi preoccupati andarono dal vecchio saggio e gli dissero:
“ Non ci intendiamo di teatro. Come facciamo allora a distinguere uno spettacolo buono da uno cattivo?”
E il vecchio saggio raccontò loro la storia del vestito dell’imperatore.
“ C’era nel regno un imbroglione che voleva guadagnare facilmente e senza lavorare. Sapendo che l’imperatore cercava un sarto capace di confezionare un vestito inimitabile, lussuoso e originale per una festa che si sarebbe svolta a breve, egli si presentò un giorno alla reggia dicendo: “ Io sono colui che cercate ma vi avviso Vostra Maestà: il mio abito è magico e può essere visto solo da coloro che hanno l’animo puro. Lestofanti, corrotti e malvagi non possono vedere nulla del suo splendore.” Si accordarono dunque sulle stoffe ed il prezzo e il sarto fu ingaggiato. Tutti i giorni il sarto andava dal Re a prendere le misure e fargli vedere il progresso del proprio lavoro chiedendo conferma all’imperatore della bellezza della stoffa e tutti i giorni il Re si rammaricava in silenzio di non potere vedere nulla di tanta bellezza, bene attento a non svelare il proprio segreto. Arrivò quindi il giorno della Festa ed egli sfilò tra le strade del Regno indossando il famoso abito, mentre i sudditi si inchinavano al suo passaggio, anch’essi senza svelare di non essere capaci di vedere nulla, finchè un bambino tra la folla esclamò:” Ma l’imperatore è nudo!”
“ Non abbiate paura di esprimere ciò che sentite e vedete quando andate a teatro e non fidatevi di quanti vogliono convincervi del contrario, soprattutto se affermeranno che il teatro è negli occhi di chi guarda”
LA PARABOLA DELLA FALSITA’
Un giorno il vecchio saggio volle spiegare ai propri allievi di come spesso le apparenze possano essere ingannevoli. Raccontò loro quindi una storia realmente successa.
In quel tempo c’era un’insegnante di nuova nomina molto perfida. Il fatto è che non sentendosi culturalmente all’altezza delle sue colleghe e al centro dell’attenzione come avrebbe invece desiderato, cercava di denigrarle appena ne aveva il modo e cioè con astuzia, senza che nessuno se ne accorgesse.
Tutti i giorni lisciava i piccoli Buddha con carezze e moine, cercando di dirottare su di sè la loro attenzione, pungolando in quel modo la reciproca gelosia quando qualcuno di loro veniva distrattamente “dimenticato”. In tal modo si garantiva la fama di insegnante affettuosa gioendo del malessere di quanti a turno non venivano presi in braccio certa che tale sua mancanza avrebbe giocato a proprio favore presso i loro genitori. Allo stesso tempo non dimenticava mai di sottolineare ai piccoli Buddha di come essi fossero malvisti e “ maltrattati” dalle colleghe che con i loro comportamenti professionali dimostravano di non amarli affatto, al punto di convincerli che dovevano temerle. Così in quella scuola d’infanzia capitava che spesso i piccoli si disperavano immotivatamente all’arrivo di una o altra insegnante, né sapevano se interrogati spiegarne il perchè. Quel malessere suscitò qualche interrogativo in qualche genitore che subito si recò a confidarsi con l’unica insegnante amorevole di quella scuola, cui non parve vero poter ravvivare la fiamma del dubbio e della calunnia, mentre ignare del pericolo incombente le colleghe continuavano a svolgere il proprio lavoro. Partì quindi la denuncia per “maltrattamenti” e la macchina si mise in moto. Facile intuirne il seguito. Le insegnanti vennero “precauzionalmente” sospese dal servizio, non così la perfida che godette del risultato del proprio capolavoro.
LA PARABOLA DELLA MAESTRA PERFETTA
In quel tempo per incentivare la categoria degli insegnanti ai dirigenti scolastici venne data facoltà di premiare il maestro o la maestra migliore. Egli quindi svolse un’indagine nelle sue scuole, chiedendo ai propri docenti informazioni sui colleghi, scoprendo che ciascuno almeno una volta, quando non era direttamente intervenuto, si era lamentato di qualche piccolo Buddha.
C’era però una maestra che tutti i giorni si recava a scuola e per l’intera giornata se ne stava zitta, incurante degli oggetti che volavano da un angolo all’altro dell’aula, degli strilli dei bambini e di quanto intorno potesse succedere.
Imperturbabile appoggiava la giacca e la borsa, si sedeva alla scrivania, apriva il libro e leggeva, a voce alta se i bambini gradivano, in silenzio se non erano interessati alla lezione, finchè non suonava la campanella di chiusura delle lezioni.
Così quando il dirigente chiese informazioni su di lei tutti asserirono di non averla mai sentita parlare, commentare, sgridare o lamentarsi di qualcosa al punto che i piccoli Buddha non conoscevano nemmeno il suo nome, né avevano alcuna lamentela da muoverle.
Fu così che il dirigente la premiò.
LA PARABOLA DEL MAESTRO INFELICE
In quel tempo nessuno voleva insegnare perché era un lavoro sottopagato. Inoltre era facile finire in prigione se si interveniva contro un piccolo Buddha ribelle. Così un maestro, stanco di vivere nel panico, andò dal proprio dirigente scolastico perchè gli spiegasse come non incorrere nell’accusa di “maltrattamenti” o “abuso di mezzi di correzione”, le due più frequenti condanne.
Il dirigente lo ascoltò e gli disse:
“ Di certo una psicologa può risponderti meglio di me.”
Allora il maestro andò dalla psicologa e questa disse:
“ In teoria è semplice: non devi ledere la libertà del bambino, ma poiché è la legge che stabilisce il confine della sua libertà devi rivolgerti ad un magistrato”
Allora il maestro andò dal magistrato che rispose:
“ E’ vero che la legge tutela i diritti del bambino, ma quando un bambino frequenta la scuola ne risponde il dirigente scolastico”
Il maestro tornò a scuola e ricevette la visita del dirigente scolastico che gli chiese:
“ Hai quindi saputo ciò che volevi sapere?”
“ No” rispose il maestro.
Allora il dirigente scolastico lo licenziò perché non avrebbe saputo fare il suo lavoro.
LA PARABOLA DEL PICCOLO BUDDHA RIBELLE
In quel tempo dopo i primi tre mesi di scuola un piccolo Buddha decise che in quel nuovo ambiente avrebbe fatto tutto quello che avrebbe voluto. Si alzò quindi dal banco e cominciò a scaraventare gli oggetti addosso ai bambini. Aprì poi le finestre e ne scaraventò altri di sotto. Mentre l’insegnante cercava inutilmente di calmarlo le sferrò calci e pugni e uscì correndo in corridoio.
L’insegnante chiamò allora in aiuto altre insegnanti che cominciarono a rincorrerlo per tutta la scuola senza riuscire a prenderlo.
Chiusero quindi porte e finestre per evitare che il piccolo Buddha potesse scappare da scuola.
Arrivò il dirigente.
“ Perché avete chiuso le porte e le finestre della scuola?” domandò.
“ Perché il piccolo Buddha voleva fuggire” rispose una maestra.
“ Questo è un doppio reato” rispose il dirigente scolastico “ Sequestro di minore e abuso di mezzi di correzione”. Chiamò le guardie e le maestre finirono in prigione.
LA PARABOLA SULLA REGOLA E SULLA TRASGRESSIONE
In quel tempo uno straniero incuriosito si aggirava nel Paese.
“ Cosa imparano i piccoli Buddha a scuola?” domandava
“ Tutto quel che c’è da sapere” gli rispondevano.
“ Ascoltano quindi i maestri?”
“ Se ne hanno voglia”
“ Imparano a leggere e a scrivere?”
“ Se si applicano”
“ E se non imparano, non si applicano, non eseguono i compiti, vengono bocciati?” chiese ancora lo straniero.
“ Assolutamente no” rispose scandalizzato un cittadino. “ Vengono sostenuti ed aiutati da un altro insegnante, perché certo se non si applicano la colpa non può essere dei piccoli buddha”
“ Ma non ci sono regole da rispettare?” domandò non ancora contento.
“ Certo, la scuola ha il compito anche di insegnare loro le regole”
“ Allora se le trasgrediscono saranno puniti” rispose l’uomo “ Perché una regola non vale se non esiste una sanzione per la sua trasgressione”
“ Tu oseresti punire un bambino? Da noi questo si chiama “ abuso di mezzi di correzione” “ rispose il cittadino. Chiamò le guardie e lo straniero finì in prigione.
LA PARABOLA SUL NUOVO CARCERE
In quel tempo il vecchio saggio spiegò agli allievi come avrebbero dovuto essere le prigioni.
Egli disse: “ Dovrebbero essere luoghi in cui i detenuti imparano a non sbagliare più.”
“ Questo già lo sono “ dissero gli allievi. “ I detenuti sono reclusi, privati della libertà, costretti nelle proprie celle, senza la possibilità di fare alcunchè, né leggere, né discutere tra loro, né informarsi su ciò che succede fuori, né intraprendere attività. La mancanza di ogni libertà è la loro punizione, così il castigo subìto insegnerà loro a non trasgredire più le leggi”.
“ Ciò è vero” rispose il saggio “ ma se uno di voi venisse bocciato in matematica, come potrebbe migliorare in quella materia? Pensate forse che il tenerlo in castigo aumenterebbe le sue conoscenze?”
LA PARABOLA SULL’INTRODUZIONE ALL’ARTE
In quel tempo pochi erano in grado di comprendere il senso delle opere d’arte.
Gli artisti si rivolsero quindi al vecchio saggio e gli dissero:
“ Come dobbiamo fare?”
“ E’ semplice” rispose questo “ Spiegate loro a parole il significato delle vostre opere”
Così i musei e le mostre si attrezzarono per introdurre le nuove opere con lunghe e dettagliate spiegazioni utilizzando muri, presentazioni scritte e a viva voce.
Il pubblico che prima si aggirava perplesso tra le sale senza sapere cosa stava guardando, ora poteva aggirarsi perplesso nelle stesse sale sapendo che un punto nero in mezzo ad uno spazio vuoto poteva essere: il senso della vita, o l’origine dell’uomo attraverso il ritratto simbolico della prima scimmia vista dall’alto, o la solitudine dell’uomo in un mondo di indifferenza, o la nullità della terra nello spazio infinito, o la materia vittoriosa sullo spirito, o il rapporto tra numero e infinito, o la riduzione degli elementi alla loro essenza, o la lotta dei neri per l’integrazione, o la percezione del mondo dal punto di vista di una formica, o il desiderio di autoaffermazione dell’individuo, o lo sprofondare della coscienza nell’abisso….
“ Cosa rende artistico questo punto nero? “ chiese un visitatore perplesso al vecchio saggio.
“ L’idea che rende quel punto nero un’altra cosa” rispose il vecchio saggio.
Allora il visitatore tornò a casa. Prese un foglio bianco e disegnò una riga nera e disse:
“ Questa riga nera può essere: l’avanzamento delle avanguardie artistiche, o l’atto di protesta contro la prima linea in guerra, o i neri che avanzano per la lotta contro il razzismo, o la frontiera che divide il bene dal male, o l’arroganza del potere contro il bianco informe della massa, o la riscossa delle formiche contro la distruzione della natura.”
Si guardò soddisfatto allo specchio e si sentì un grande artista.
LA PARABOLA SULLA FINE DEL MONDO
In quel tempo un uomo molto afflitto si aggirava per il Regno.
“ Perché sei così triste?” gli chiese il saggio non appena lo incontrò.
“ Perché tra pochi anni la mia vita finirà” disse l’uomo
“ Non sapevi dunque che la morte è la logica conclusione della vita? ” chiese stupito il vecchio saggio.
“ Certo che lo so e non è questo che mi angoscia. Mi rimane piuttosto insopportabile sapere che quando sarò morto il mondo continuerà e altre persone vivranno come se nulla fosse successo” rispose l’uomo.
Passò del tempo e il vecchio saggio lo rincontrò mentre con sguardo soddisfatto scrutava il cielo.
“ Mi fa piacere che la serenità sia tornata in te e che tu ti sia rassegnato alla vita che verrà dopo la tua” commentò il vecchio saggio.
“ Niente affatto” rispose l’uomo “ Ora sono quasi certo che il mondo salterà per aria per mano di qualcuno che ha il mio stesso problema e moriremo tutti insieme.”
LA PARABOLA SUL CONTROLLO SOCIALE
In quel tempo i regnanti facevano fatica a tenere a bada i propri sudditi, essendo la popolazione aumentata più del previsto. Inoltre la scuola dava ottimi frutti: veniva frequentata da molti e gli allievi ne uscivano con competenze tecniche e svegliezza intellettuale. Il flusso dei nuovi adulti era perciò quanto mai potenzialmente pericoloso.
“ Cosa faremo quando cominceranno a pensare di migliorare la società e le condizioni di vita?” si domandavano preoccupati. “ Che fine faremo quando si coalizzeranno contro di noi?” e non sapevano rispondere.
Chiamarono allora un forestiero capace di aiutarli.
“ Io conosco una ricetta infallibile” disse lo straniero “ Dovete tenerli occupati tutto il giorno. Fateli lavorare per voi da mattina a sera. Avranno la sensazione di avere acquisito competenze utili e non avranno il tempo di pensare.”
I regnanti così fecero.
La cosa funzionò finchè una grave crisi non scosse il Paese e i posti di lavoro si ridussero drasticamente. Gli ex lavoratori, ora liberi dalle catene, circolavano liberamente per le vie del Regno curiosando qua e là e parlottando tra loro, protestando per la mancanza di soldi che li costringeva ad abbassare il proprio tenore di vita.
I regnanti allora disperati richiamarono lo straniero.
“ Cosa facciamo ora che non sono più occupati nel lavoro per non permettere loro di pensare?”
gli chiesero.
“ Ora il problema si risolve così” disse lo straniero “Poichè è impossibile eliminare il loro pensiero bisogna indirizzarlo.”
“ E come faremo a governare i loro pensieri? Non siamo capaci di manipolare le loro menti” dissero i regnanti.
“ Eppure voi siete in vantaggio perchè governate la tecnologia e i mass media. Basterà immettere sul mercato dei prodotti talmente allettanti da assorbire completamente la loro attenzione. Basterà riempire i mass media di stupidaggini, di pettegolezzi e di contenuti di basso profilo costringendoli a parlare di quello:”
“ Ma come faranno ad interessarsi di cose di scarso interesse gli uomini che hanno studiato e che dimostrano una mente sveglia?” chiesero ancora i regnanti.
“ Abbassate il livello delle loro scuole perchè si sa non c’è intelligenza quand’essa non venga sostenuta, nutrita e potenziata.”
E fu così che in quel regno gli uomini passavano tutto il proprio tempo libero negli ultimi ritrovati delle nuove tecnologie; interagivano poco tra loro e le rare volte che lo facevano parlavano di cose marginali e private, avevano disimparato a porsi domande rincuorati dai vicini molto simili a loro, mentre i regnanti brindavano al successo delle nuove strategie di controllo.
LA PARABOLA SUI CRITICI E LA CULTURA
In quel tempo i critici gareggiavano tra loro per eleggere chi fosse il più dotto, il più raffinato, il più profondo, il miglior letterato.
Cominciarono perciò a scrivere recensioni sempre più incomprensibili con parole altisonanti, concetti impenetrabili e citazioni rocambolesche, spesso dubbie e improbabili, insomma tutte da verificare, in modo tale da risultare sempre più nebulose ai lettori.
“ Perchè queste recensioni sono sempre più illeggibili?” chiese uno ad un altro.
“ Perchè giocano a chi ce l’ha più grosso…” rise il compagno e allo stupito interrogativo dell’amico precisò: “ …Il cervello! Cosa hai capito?”
Il vecchio saggio, sentendo la conversazione, pensieroso disse:
“ Magari fosse solo questo! In realtà stanno prendendo le distanze dal mondo. Essi dicono: “ Noi solo sappiamo, al contrario di voi lettori zotici ed ignoranti che non sapete nulla”.
“ Ma il loro compito non sarebbe quello di migliorare la comprensione degli spettacoli e di renderli chiari agli occhi dei più?” obiettò uno.
“ La cultura è spesso linea di divisione. I colti preferiscono serbarla stretta e stringere cerchio a sé piuttosto che condividerla, mantenendo ben netta la divisione tra colti e ignoranti” rispose il saggio.
LA PARABOLA DELLA MINA VAGANTE
Un giorno il vecchio saggio prese un gruppo di giovani per spiegare loro come fosse la vita.
“ Se hai qualche dote cercheranno di comprarti;” diceva “ se non hai alcuna dote sarai tu che cercherai di venire comprato, ma se hai delle doti e rifiuterai di essere comprato diventerai pericoloso come una mina vagante.”
LA PARABOLA DELLA FELICITA’
Un giorno un uomo decise di cercare la persona più felice del mondo per carpire così il segreto della felicità. Si avventurò quindi per il regno a chiedere a quanti incontrava se fossero felici ma tutti scuotevano la testa dicendo: “ Se solo avessi…..”
Poiché il fatto di “non avere” implicava povertà l’uomo allora andò dagli uomini più ricchi, certo che almeno uno di loro fosse felice grazie alla propria posizione sociale, ma per quanto domandasse anch’essi rispondevano : “ Se solo avessi….”
Rispose in quel modo il signorotto del castello lamentandosi che il numero di guardie era troppo esiguo per difenderlo. Allo stesso modo rispose il proprietario di tutte le terre che non aveva sufficiente mano d’opera per coltivarle tutte. E così anche rispose il re, signore di tutte le risorse del regno.
“ Ma come Maestà” obiettò l’uomo “ Siete il più ricco del Regno. Cosa vi manca dunque per essere felice?”
“ Mi manca il fiore blu capace di allungare la vita” rispose il re. “ Quale felicità posso avere se
sono destinato alla morte come un qualsiasi mio suddito?”
L’uomo stava rinunciando all’impresa quando si imbattè in un giovane vestito alla meno peggio che zufolava allegramente.
“ Perché zufoli?” chiese quindi
“ Perché sono felice” rispose il giovane.
L’altro lo guardò meravigliato poi disse:
“ Sei forse un re facoltoso e potente sotto mentite spoglie?”
Il giovane sorrise poi disse: “ Forse, ma il mio regno è dentro di me. Tutti i giorni lo faccio e lo disfo a mio piacimento perché sono un artista e so creare partendo dalla mia fantasia.”
“ Da ciò dunque deriva la tua felicità?” chiese l’uomo
“ Certo è la libertà che mi rende felice” rispose il giovane, tornando a zufolare allegramente.
LA PARABOLA DELLA LIBERTA’
In quel tempo gli artisti erano tenuti in alta considerazione e i loro nomi risuonavano nella bocca di tutti. Tanto più il loro nome era pronunciato tanto più significava che erano ricchi e famosi. Era però altrettanto vero che non tutti quelli che si dedicavano all’arte giungevano all’apice del successo e molti erano quelli che non avevano la gloria che avrebbero voluto.
Si scatenò quindi una lotta senza precedenti per la conquista della fama, una gara senza regole e con ogni mezzo, lecito o illecito, perché la posta in gioco era alta, al punto che quando una persona si comportava in modo scorretto o tradiva la fiducia che in lui era stata riposta veniva tacciato con l’appellativo di “artista”.
Un giorno il vecchio saggio, passeggiando per le vie del paese, incontrò un pittore con un vestito lacero e imbrattato di colore armato dei propri pennelli e della propria tela assorto nei propri pensieri. Armeggiando con i colori sembrava talmente immerso in quel che faceva da non rendersi conto di ciò che avveniva intorno. Incuriosito il vecchio saggio gettò un occhio sul suo lavoro e lo trovò di una bellezza commovente.
“ Chi sei?” chiese allora il vecchio saggio, pensando di essersi imbattuto in un artista famoso.
“ Un pittore” rispose questo con semplicità.
“ E’ un vero peccato che tu non abbia la gloria e la ricchezza che meriti” commentò il vecchio saggio.
“ Io non aspiro alla gloria e alla ricchezza. Sono felice così” rispose il pittore
“ E come puoi essere felice tu, così poveramente vestito, senza gloria né ricchezze, che girovaghi tra le vie del regno sconosciuto tra gli sconosciuti?” gli chiese stupito l’uomo.
“ Sono felice proprio perchè posso creare a mio piacimento senza doverne rendere conto al giudizio di nessuno. Come potrei essere felice se dovessi guardare il mondo dalle inferriate di una prigione?”
DELLA NORMA E DELLA TRASGRESSIONE NEL GREGGE
In quel tempo pochi pastori governavano il gregge e il gregge ubbidiente seguiva le regole sociali senza porsi troppi perchè. Pochi trasgredivano le leggi stabilite, non solo perché sarebbero stati puniti o avrebbero pagato con una vita infelice, ma soprattutto perché erano da sempre stati abituati all’ubbidienza e si sa che le abitudini sono dure a morire.
Nello stesso tempo però alcuni “sbandati”, casi isolati e tali da considerarsi “ malati” uscirono dal branco, rivendicando con coraggio un’autonomia sconosciuta ai più. La cosa suscitò scalpore e certo imbarazzo quando gli stessi personaggi dimostrarono con le proprie opere artistiche e letterarie che la malattia che li affliggeva serbava dei doni intellettuali e creativi insospettabili.
Poiché però i tempi non erano ancora maturi e il popolo era ancora incapace di leggere in quelle trasgressioni i segni di quella intelligenza che in ciascuno difettava, vennero compresi e difesi da pochi, perseguitati in vita, conducendo una vita difficile e piena di ostacoli, ritenuti pericolosi per se stessi e la società, fino alla loro morte.
Poiché si sa che dopo la morte le imprese compiute in vita si moltiplicano così come si moltiplica la fama e la gloria di chi è già vissuto e ora non è più (proprio perché non essendoci più non è più temibile), la loro morte suggellò improvvisamente tributi e onori.
Al cospetto delle loro opere d’arte, recensite con lodi eccelse dalla critica unanime, anche il gregge si accorse dell’eccezionalità di quelle personalità e subito si affrettò ad imitarle.
“ Come siamo stati sciocchi ad accettare le regole del branco” si battevano il petto contriti “ Se solo avessimo compreso quale fosse la posta in gioco ci saremmo comportati ben diversamente.”
Perché se il branco non brillava per intelligenza certamente la furbizia non faceva difetto e sapeva riconoscere un premio da un castigo.
Un numero sempre maggiore di persone si affrettò così a rimediare come poteva al proprio destino anonimo, imitando chi per primo aveva osato contravvenire alle leggi. E in effetti i primi furono premiati. Chi gridava di gioia di fronte ad opere straordinariamente incomprensibili che evidentemente rompevano ogni regola precedente, chi inneggiava ad una imminente rivoluzione sociale che sarebbe partita dal mondo dell’arte. Più l’estro personale trovava spazio e possibilità di espressione, più si lodava la trasgressione che avrebbe permesso a ciascuno di trovare il proprio momento di gloria.
Arrivò il giorno in cui si gareggiò per l’idea più imprevedibile ed irriverente. Furono quindi banditi concorsi e premi; ci si accorpò in associazioni nel tentativo di far prevalere la propria idea sulle altre.
“ Chi è tra noi il più trasgressivo?” si mormorava e si chiedeva a gran voce, reclamando la giusta ricompensa.
Poiché nessuno era in grado di rispondere si chiamò il vecchio saggio a decidere.
“ Cos’è la trasgressione?” chiese allora il vecchio saggio ai convenuti.
“ Perché ci fai una domanda così ovvia?” disse uno degli astanti “ Tutti sanno che trasgredire significa non seguire la norma, cioè le regole della maggioranza del branco”.
“ E’ allora evidente che nessuno qui merita il premio” disse il saggio “ giacché oggi la trasgressione è diventata norma.”
LA PARABOLA DELLA LUCE E DELLE OMBRE
In quel tempo gli attori godevano di ottima reputazione, tanto che tutti avrebbero voluto diventarlo. Tutti i giorni i giornali tessevano le lodi di questo o di quello, pochi tra i tanti, all’apice del successo, ma più le recensioni entusiaste li acclamavano quali stelle del firmamento, più gli attori cui erano rivolti gli elogi mugugnavano, borbottavano e insultavano gli autori degli articoli.
“ Perché mormori, borbotti e ti agiti così?” chiese un giorno il vecchio saggio ad un attore “ Non sei forse contento della fama e della gloria? Cosa dunque potresti volere di più tu che non sei capace di fare nulla se non avanzare con un bel portamento, rimirarti allo specchio ed ascoltare la tua voce?”
“ Il mio compito non è quello di essere utile agli altri come tutti i comuni mortali. Le mie doti sono speciali per questo sono famoso.” rispose l’attore
“ Mi pare che i giornali non ti ignorino, al contrario ti esaltano” disse il saggio “ Perché dunque sei così di malumore e brontoli e borbotti se i giornali ti nominano stella del firmamento?”
“ Perché i giornali nel farlo mi offendono. Sono ben più importante di una stella del firmamento già morta da tempo. Io solo sono una stella che brilla di luce propria e il mio solo compito è quello di regalare un po’ della mia luce a tutte le ombre buie vaganti che si agitano sotto il palcoscenico” rispose l’attore, mentre il saggio se ne andava fluttuante come una scura ombra vagante.
LA PARABOLA DEL GREGGE ALLO SBANDO
In quel tempo le convinzioni della gente si stavano sgretolando. Per la stessa ragione le vecchie ideologie erano cadute e le menti zigzagavano da un angolo all’altro senza riuscire ad intercettare un sentire affine. Il fatto è che le vecchie ideologie avevano risparmiato alle persone per molto tempo la fatica di pensare. Tutti erano stati convinti delle solide basi ideali sulle quali ciascuna era fondata e le differenze tra l’una e l’altra sembravano nette, così la democrazia era garantita dal diritto di voto. Si può quindi immaginare il caos che si creò quando venne dichiarata ufficialmente la loro fine. Vanamente le persone cercavano di rintracciare tra l’una e l’altra corrente politica sostanziali differenze. Alcuni si accorsero perfino che le parti si erano invertite: il valore ideale o morale di uno era ora declamato dall’altro, in una lotta continua verso la supremazia di potere e i valori cambiavano con il mutare del consenso collettivo.
Giunse il momento di votare.
“ Cosa dobbiamo votare?” chiesero allora gli uomini confusi al saggio.
E il saggio rispose: “ Cerca la verità dentro di te.”
“ Come faccio a riconoscerla?” chiesero allora.
“ La verità è quella voce che ti sussurra la coscienza, quella che determina la coerenza delle tue scelte, quella che hai allenato tutta la vita, quella che ti ha aiutato a prendere sempre le decisioni giuste” rispose il saggio.
Un uomo commentò sconsolato: “ Le voci interiori non esistono.”
Un altro disse: “ Verità e coscienza sono parole obsolete. “
Un terzo disse: “Per tutta la vita mi sono allenato a riconoscere il simbolo del partito e ora il simbolo è cambiato. Mi sono allenato a riconoscere le facce amiche per poterle votare, ma le ritrovo sotto altri simboli .”
“ E’ vero” aggiunsero gli altri “ Cosa sceglieremo dunque ? Le facce amiche o il simbolo?” e se ne andarono sconsolati.
Nessuno pensava che per votare si dovesse pensare.
Nessuno sapeva trovare dentro di sé cose che non c’erano.
LA PARABOLA DEL GIULLARE FOLLE
In quel tempo anche il governo aveva i propri giullari così come le corti un tempo.
I giullari avevano il compito di divertire, compito che assolvevano piuttosto bene e per questo venivano lautamente pagati, ma dovevano rispettare regole precise se volevano non essere cacciati dai regnanti.
A loro era consentito canzonare i personaggi della politica, meglio facendo nomi e cognomi, cosicché tutti sapessero di chi stavano parlando: il popolo rideva e si affezionava a quei nomi, quasi fossero diventati membri della famiglia; i regnanti erano soddisfatti perché ne acquisivano popolarità.
Non dovevano però assolutamente parlare delle loro malefatte, in particolare delle truffe, delle appropriazioni indebite, della corruzione, dei favoritismi, dell’assenteismo dilagante nelle aule ove i governanti avrebbero dovuto trovarsi per svolgere il proprio lavoro e di tutti gli innumerevoli reati per i quali talvolta venivano indagati e inquisiti, ma la maggior parte delle volte impuniti.
Al contrario se un indigente rubava per mangiare veniva immediatamente punito, se un impiegato si assentava ingiustificatamente dal lavoro veniva licenziato, se un commerciante rubava finiva subito sotto processo, se un adulto castigava un piccolo buddha finiva direttamente davanti al giudice.
Arrivò un giorno in quel regno un giullare che pretendeva di svolgere il proprio lavoro senza preoccuparsi di cosa gli fosse consentito o meno e cominciò a girare per le piazze saltando e cantando.
Ridendo diceva : “ Ho visto la scritta “ La legge è uguale per tutti nei tribunali” ma così non è”
“ Ho visto che chi difende i piccoli buddha poi va all’estero a fare turismo sessuale con bambini”,
“ Ho visto che il Ministro che ha varato la legge contro l’assenteismo ha totalizzato il numero più alto di assenze”, “ Ho visto che la povertà è un delitto e chi è povero non è tutelato”, “ Ho visto che i diritti dei piccoli buddha sono solo qui in occidente, mentre altrove i bambini vengono venduti, stuprati, armati e uccisi”.
La presenza del giullare suscitò scompiglio. La gente scappava o si nascondeva non sapendo come reagire a quell’imprevisto; alcuni si tappavano le orecchie cercando di dimenticare ciò che sentivano. Solo i piccoli buddha ridacchiavano.
Vennero chiamati i pompieri che dissero: “Non è di nostra competenza”. Chiamarono allora le guardie che affermarono “ Non è di nostra competenza”. Venne chiamata la magistratura che disse: “ Senza una precisa denuncia non possiamo operare”. Venne chiamata la stampa che filmò tutto ma non potè pubblicare nulla; infine vennero chiamati gli psichiatri a studiare quel caso insolito.
Gli psichiatri girarono intorno al giullare disquisendo su quella strana e anomala malattia sconosciuta. Tutti gli stavano alla larga perché non si poteva escludere che fosse contagiosa.
Tutti sembravano profondamente afflitti tranne il giullare che continuava a cantare, saltare e divertirsi circondato dai piccoli buddha.
LA PARABOLA DEL GIULLARE
In quel tempo la classe politica era costituita da un’accozzaglia di delinquenti che aveva intessuto una tela talmente fitta di relazioni malate da rendere impossibile a chiunque, anche se nuovo arrivato e animato dalle intenzioni più nobili, di cambiare la situazione.
Tutto questo avveniva con il popolo all’oscuro di tutto, anche se quel triste andazzo era talmente andato oltre da intaccare tutte le istituzioni, anche quelle che costituivano l’ossatura sociale come la scuola, che poco alla volta con decreti, leggi e leggine si trovavano snaturate del proprio ruolo, sempre meno al servizio del cittadino e sempre più in balia della finanza che faceva muovere tutto.
Un giorno arrivò in quel regno un giullare desideroso di esibire le sue capacità.
Non conoscendo il territorio, i suoi abitanti e le malefatte dei governanti decise di prendersi un periodo di tempo per acquisire tutte quelle informazioni così utili al suo lavoro, ma l’impresa era tutt’altro che facile, a cominciare dal linguaggio. Le parole significavano tutto e il loro contrario, così i comportamenti che ne derivavano. Alcune parole poi come libertà, onestà, indipendenza ed etica avevano un significato completamente diverso dal luogo in cui lui arrivava perchè il linguaggio stesso era stato asservito al dominio economico.
“ Io sono un giullare” si lamentava “ Come posso esercitare la mia professione se il significato delle parole non è chiaro? Come posso parlare di libertà o di etica se non esiste il loro contrario?” e costernato e inconsolabile si batteva il petto lungo le vie del regno.
“ Perché ti lamenti?” chiese il vecchio saggio avvicinandosi.
“ Perché il mio lavoro ha bisogno delle parole, ma qui le parole hanno troppi significati e talvolta l’uno esclude l’altro. “
“ Non devi abbatterti ” lo consolò il vecchio. “ Al contrario devi considerarti fortunato. Ciò che consideri mancanza di chiarezza si chiama “globalizzazione”. In questa nuova era tutto è consentito, tutto e il suo contrario. Non ci sono limiti, né confini, per questo le definizioni non servono più.”
“ Ma come potrò fare il giullare senza conoscere il significato delle parole, strumento primo del mio lavoro?” lo interrogò il giullare con aria impotente.
“ Potrai scegliere il significato delle parole come vorrai. Troverai sempre un tuo piccolo seguito ad accogliere entusiasta le tue riflessioni”
“ Ma io non mi accontento di un piccolo seguito: io voglio parlare in tv, nei grandi teatri e nelle grandi piazze. Voglio diventare famoso per un grande pubblico non per un piccolo seguito.”
“Allora se vuoi piacere ad un grande pubblico “ disse il saggio “ dovrai tacere perchè le parole sono fonte di divisione. Se proprio vorrai parlare dovrai dire tutto e il contrario di tutto. Solo così avrai il consenso”
“ E potrò quindi guadagnare come giullare?” chiese speranzoso il forestiero.
“ E quando un vero giullare ha conquistato le folle?” rispose il saggio scuotendo la testa.
LA PARABOLA SULL’INSOFFERENZA
In quel tempo i piccoli Buddha si erano moltiplicati come erbe infestanti ed erano temuti più della peste. Nessuno era più in grado di arginare le loro malefatte, men che meno i genitori relegati al ruolo di sudditi e che, quando non subivano violenza, venivano ricattati con ogni mezzo, perché la loro astuzia si era affinata nelle innumerevoli scaramucce verbali nelle quali erano abilissimi.
Il fatto è che in quel tempo la dialettica aveva preso il sopravvento su ogni cosa e l’assenza di divieti aveva reso il linguaggio un’arma subdola, capace di infilarsi in ogni minimo anfratto e di scavalcare qualsiasi ostacolo.
Alcune parole poi come “intimità” o “privacy” con il relativo significato erano scomparse dal vocabolario semplicemente perchè non servivano più: i piccoli Buddha invadevano ogni spazio senza chiedere il permesso a nessuno al punto che qualcuno cominciò a pensare che fossero uno dei famosi mali del mondo come l’assalto delle cavallette.
Prima cominciarono i ristoranti a scrivere coraggiosamente cartelli: “ Vietato l’ingresso ai bambini”,
poi, visto che la cosa imprevedibilmente attirava più clienti, seguirono i negozi, le sale gioco, i parchi, finché quella proibizione non si estese a quasi tutti i locali pubblici.
Poi fu la volta dei mezzi di trasporto. Cominciarono le corriere, poi i treni, infine gli aerei con tariffe differenziate e si scoprì che la gente preferiva pagare di più pur di non sentire le urla e gli schiamazzi degli incivili piccoli Buddha.
Gli adulti cominciarono a respirare, a rilassarsi, a rallentare i propri ritmi, a parlare, a divertirsi, ad occuparsi dei propri hobby, a interagire in modo amichevole, man mano che lo spazio pubblico consentito ai piccoli Buddha si restringeva.
L’esempio contagiò anche i genitori che un po’ alla volta preferirono lasciare la casa ai bambini e ritirarsi in altri spazi più quieti e protetti.
“ Bisognerà trovare una soluzione per queste cavallette!” commentò un giorno un signore.
“ Sarebbe una buona soluzione quella di costruire un recinto in cui metterle?” rispose un altro, mentre i piccoli Buddha vagavano perplessi in quel nuovo mondo incapace di comprenderli.
LA PARABOLA SULLA RESPONSABILITA’ SOCIALE
In quel tempo la maleducazione dei piccoli Buddha dilagava tra l’indifferenza generale.
Arrivò in città un forestiero. Mentre passeggiava tranquillamente tra le strade del centro venne colpito in pieno viso da un pallone che gli provocò un dolore lancinante. Mentre cercava di capire chi avesse lanciato quel pallone un gruppo di ragazzini si affacciò al balcone e rise.
Il forestiero chiese chi di loro fosse stato e se il loro gesto fosse stato intenzionale ottenendo in cambio risate, gestacci ed insulti. Nello stesso momento si affacciò alla finestra della stessa casa una donna.
“ Sono i suoi figli?” chiese il forestiero indicando i ragazzini.
“ Certo” rispose la donna “ Li sta forse disturbando?”
“ Mentre passavo qui davanti mi hanno colpito con il loro pallone” rispose il forestiero mostrando alla donna il livido.
I bambini risero commentando con offese e insulti. Anche la madre rise divertita ammiccando ai propri figli.
“ Come ha educato i suoi figli?” chiese allora il forestiero.
“ I miei figli non hanno bisogno di essere educati” rispose allora la donna.
Si affacciò allora anche il padre.
“ Cosa vuole questo straniero?” chiese mentre i bambini gli lanciavano bucce di arance e di banane.
“ Pretende che i nostri figli vengano educati” commentò la donna.
“ Come potremmo? Io lavoro tutto il giorno e quando la sera torno a casa pretendo che siano già a letto. Mia moglie anche lavora in casa e non ha certo il tempo di inseguirli nei loro giochi” disse l’uomo.
“ Ma chi insegna a questi bambini come comportarsi?”
“ La scuola” rispose l’uomo.
In quel momento passava una maestra.
Allora il forestiero le chiese se era lei che educava i bambini.
La maestra rispose:
“ Un tempo. Oggi non è più compito nostro. Non possiamo più interferire su ciò che fanno i piccoli Buddha altrimenti andiamo davanti al giudice.”
Allora il forestiero andò dal giudice e disse:
“ Perché non educate i bambini in questa città? Passavo per la strada e mi hanno lanciato oggetti dalla finestra. State allevando piccoli delinquenti”
E il giudice lo mise in prigione.
LA PARABOLA DELLA NUOVA CACCIA ALLE STREGHE
In quel tempo le istituzioni non godevano di stima per colpa dei regnanti che le avevano sabotate con leggi ingiuste facendo ricadere le colpe su quanti vi lavoravano.
Particolarmente gli insegnanti erano stati presi di mira al punto che si era sparsa la voce che fossero incompetenti e fannulloni e che pesassero impunemente sul bilancio sociale.
Notando la loro debolezza la società pensò bene di farne un capro espiatorio per tutti i malfunzionamenti sociali. A ciò contribuirono l’ignoranza dilagante e l’impreparazione all’educazione delle famiglie.
Si sparse la voce che molti insegnanti avessero scelto quella professione per un perverso gusto a fare del male e che come sette segrete, alcune scuole tenessero al proprio interno rituali di sesso servendosi di cunicoli e gallerie sotterranee.
Queste voci potevano essere impunemente alimentate anche in assenza di testimoni, perché i bambini non erano attendibili e qualsiasi loro risposta poteva essere manipolata dai colpevoli. Così gli insegnanti erano costantemente osservati, vagliati, giudicati, filmati in attesa della prima loro mossa falsa, mentre il volume del loro lavoro aumentava giorno per giorno, così il numero dei bambini nelle classi e l’attribuzione di nuovi compiti.
Nonostante la sfiducia i genitori mandavano i propri figli a scuola, anche quando non era obbligatoria come nei primi anni di vita, confessando sottovoce che non avrebbero potuto resistere un giorno intero con bambini così esigenti, ribelli e viziati.
Intanto i processi agli insegnanti dei loro figli si moltiplicavano, spesso processi alle intenzioni, senza che nessuno potesse opporre resistenza perché, come succedeva all’epoca dei tribunali della Santa Inquisizione, i testimoni a favore dei presunti colpevoli venivano intimiditi e minacciati di essere complici dei delitti.
I tribunali e gli avvocati avevano trovato una nuova sicura fonte di reddito: difficilmente lo spiegamento di forze e le risorse economiche utilizzate si sarebbero risolte in bolla di sapone. Una volta che la macchina veniva avviata la colpevolezza era già garantita a priori, proprio allo stesso modo dei tempi della Santa Inquisizione: oltre alla giustificazione delle spese delle telecamere e del personale di sorveglianza tutti volevano trarre dell’utile, dal giudice agli avvocati.
I malcapitati si trovavano così da un giorno all’altro isolati, additati, perseguitati e denunciati all’opinione pubblica attraverso articoli di giornale e servizi televisivi.
Quando le telecamere non trovavano nulla di riprovevole era facile incriminare gli insegnanti di “ abuso di mezzi di correzione” poiché era difficilissimo che in un anno intero di insegnamento nessuno alzasse mai la voce, assegnasse un castigo o riprendesse un piccolo buddha. C’è da aggiungere che alcuni di loro erano davvero insopportabili, non avendo cognizione del limite, allenati a portare l’adulto all’esasperazione e pericolosi per se stessi e per gli altri.
La pena era dunque certa.
Così come nelle epoche passate molte erano le spie che spontaneamente denunciavano spesso mossi, parimenti ad allora, da invidie personali o per coprire responsabilità familiari che si sarebbero potute venire a sapere.
Tutto questo succedeva perché della cultura, del benessere sociale e dell’educazione dei figli non importava a nessuno.
Mentre la giustizia era impegnata a perseguire” le nuove streghe” cioè le insegnanti che non avevano compreso di quanto in quel nuovo mondo il non fare fosse più saggio del fare, i bambini crescendo senza freni impararono a coalizzarsi contro un capro espiatorio e si parlò di bullismo, ad associarsi per ottenere velocemente ciò che volevano e nacquero le baby gang, ad ammazzare i genitori per acquisirne i beni.
Stava nascendo una nuova epoca.
LA PARABOLA DELL’ESERCITO DEI PICCOLI BUDDHA
In quel tempo i bambini dominavano il mondo. Nelle famiglie in cui vivevano erano chiamati come principi e principesse e forte era il loro potere che nel tempo era cresciuto al punto da dettare abitudini e disposizioni a tutta la famiglia. Nessuno osava contrastare i loro ordini o non assecondare i loro capricci perché terribile sarebbe stata la punizione sociale se la cosa fosse venuta a galla, così i genitori dei piccoli Buddha si sottomettevano al loro volere, dimenticando quanto diversa fosse stata la loro educazione.
I piccoli Buddha crescevano però annoiati e tutt’altro che felici, mai sazi dei propri desideri che venivano immancabilmente ed immediatamente esauditi.
Un giorno arrivò in quel paese un giovane forestiero. Notando l’aria servile degli adulti e quella sbruffona dei bambini chiese spiegazione al vecchio saggio:
“ Perché bambini così piccoli comandano il mondo?” chiese meravigliato.
“ Perché i bambini sono l’investimento più importante della nostra società” disse il saggio
“ Nel mio paese le menti giovani imparano dai più anziani” disse allora il forestiero.
“ Anche qui un tempo era così” rispose il vecchio
“Nel mio paese i bambini sottostanno alle regole del vivere sociale per imparare a stare con gli altri” disse ancora il forestiero.
“ Anche qui un tempo era così” sospirò il saggio.
“ Nel mio paese si insegna che nessuno è così importante da essere considerato principe o principessa” aggiunse infine il forestiero.
“ Il fatto è che qui l’individuo è più importante della società, le regole non sono amate da nessuno e la loro trasgressione viene considerata libertà, ma soprattutto ci si vuole sbarazzare di quei princìpi comuni che oggi sono considerata zavorra. “
“ E cosa hanno di tanto magico i bambini qui da essere trattati come piccoli buddha?” chiese ancora meravigliato il forestiero.
Il vecchio saggio sospirò: “ I bambini non hanno passato e questa è la loro forza”
“ Ma che ne sarà un domani della vostra società quando cresceranno?”
Il saggio sospirò, allargò le braccia e non rispose.
L’ESERCITO DEI PICCOLI BUDDHA VA A SCUOLA.
In quel tempo l’obbligo scolastico riguardava anche i piccoli Buddha. Le famiglie avrebbero preferito affidare i piccoli a mani sicure piuttosto che alla scuola pubblica, ma pochi potevano permettersi il pagamento di scuole private. Ovviamente i piccoli Buddha non avevano bisogno di nessuna particolare educazione, al contrario si cercava di limitare il più possibile i danni che la scuola avrebbe inevitabilmente provocato a quelle menti elette, perciò tanto più una scuola li lasciava in pace, non pressandoli con regole, con compiti e con pretese, tanto meglio i piccoli Buddha sarebbero cresciuti, assecondando la loro naturale inclinazione.
Ovviamente solo pochi maestri erano consci delle stupefacenti capacità dei bambini e solo a quelli si poteva accordare fiducia. Tanto più un maestro elargiva voti alti tanto più era bravo e comprendeva l’indole infantile.
Le scuole private erano le migliori perché garantivano la promozione a tutti.
I piccoli così crescevano moderatamente soddisfatti.
Dopo il primo momento di panico nell’accorgersi che avrebbero dovuto condividere con altri le attenzioni degli adulti impararono ben presto a prendersi gioco di loro, a unire le forze e a socializzare in caso di bisogno per raggiungere i propri scopi.
I maestri al contrario avevano regole severissime. Non avrebbero in alcun modo dovuto contrariarli, né tanto meno sgridarli o castigarli, perché si sapeva che la cattiveria, la malizia, l’egoismo e la vendetta erano sentimenti adulti.
Capitava che a volte qualche insegnante finisse in ospedale perché malmenato da qualche piccolo particolarmente vivace, o insoddisfatto delle richieste dell’adulto, o astioso nei confronti di un controllo indesiderato. La cosa veniva immediatamente fatta rientrare nella normalità e all’insegnante veniva consigliato di non sporgere denuncia per possibili ritorsioni nei suoi confronti. Come infatti avrebbe potuto giustificare quella reazione violenta se non per averla fomentata egli stesso?
Capitava anche che a volte imprevedibilmente le famiglie protestassero contro quello o altro insegnante, soprattutto se qualche bambino manifestava strani comportamenti. Ogni disturbo di natura psicologica dei bambini veniva addebitato alla scuola e gli insegnanti vivevano nel terrore, perché, se succedeva, solo i bambini avevano diritto di parola e ogni controinterrogatorio era vietato dalla legge per proteggere le loro giovani menti.
La scuola aveva così imparato a minimizzare le problematiche dei bambini soprattutto quelle psicologiche, a promuovere anche i non meritevoli per dimostrare di essere una buona scuola, a tacere i torti dei bambini, a giustificarli in caso di richieste disattese come la non esecuzione dei compiti o il non rispetto delle regole.
I genitori avevano imparato a fare poche domande e ad accertarsi che i bambini non avessero lamentele contro i loro insegnanti.
Così i bambini crescevano bulli e ignoranti, violenti e prevaricatori, accettando solo quelle regole che permettevano loro di non ammazzarsi reciprocamente.
“ Cosa faremo quando cresceranno?” chiesero alcuni genitori in un lampo improvviso di ripensamento.
“ Siate pronti ad ogni evenienza” rispose il saggio “ Dal momento che nessuna regola etica li può fermare potrebbero attaccare in qualsiasi momento. Ora i vostri figli sono i vostri nemici.”
“ In cosa abbiamo sbagliato?” chiesero ancora spaventati. “ Li abbiamo protetti, accuditi, difesi ed accontentati. Abbiamo loro dimostrato come siamo democratici, aperti e libertari. Abbiamo dato loro l’educazione che avremmo voluto dai nostri genitori severi e punitivi.”
“ Avete insegnato loro che non ci sono limiti, né regole. Che qualsiasi confine può essere impunemente trasgredito. Che vivono in una società senza leggi. Che vince chi grida più forte. Ma soprattutto avete fatto credere loro che voi siete deboli, ricattabili, incapaci di essere un sostegno per loro, confinandoli in una solitudine esistenziale mitigata dai loro gesti eclatanti” concluse il saggio.
LA PARABOLA SULLA DISONESTA’ INTELLETTUALE
In quel tempo i teatranti arrancavano alla meno peggio per sbarcare il lunario. Vi erano anche spettacoli di pregio tra i tanti perlopiù di scarso impatto, ma nessun attore e nessuna compagnia brillava nel firmamento così come i critici avrebbero voluto.
Un giorno uno di questi, stanco di non potere scrivere un pezzo d’effetto e desideroso di risollevare se stesso e l’intera categoria, andò da un attore e gli disse:
“ Nella prossima tua produzione tu devi entrare in scena e urlare. Devi fare un urlo prolungato e basta, ma un urlo che duri l’intero spettacolo.”
L’attore incredulo, dopo essersi fatto ripetere diverse volte il messaggio, poiché il critico era persona affidabile e nota, accettò senza troppe domande e così fece.
Il critico in platea, di fronte al pubblico perplesso e ammutolito, gridò al miracolo e il giorno dopo scrisse una recensione che paragonava lo spettacolo all’urlo di Munch, affermando che finalmente dopo tanto tempo un artista si era imposto alla generale attenzione con una delle intuizioni più felici della storia del teatro contemporaneo.
Lo spettacolo così recensito fu ospitato nei Festival più prestigiosi nazionali e internazionali e i critici facevano la gara per recensirlo nelle proprie testate. Nelle università si parlò di un nuovo capitolo della storia del teatro, nei Convegni l’attore fu ospitato come star, anche se difficilmente gli si dava la parola: al suo posto parlavano i critici che facevano a gara nell’inventare nuove interpretazioni credibili di quell’urlo straordinario.
LA PARABOLA DEL VECCHIO MONDO
In quel tempo le cose non andavano bene e molto si giocava su quel filo sottile del “sembra ma non è”. Gli artisti sembravano artisti ma non lo erano, i giornali sembravano giornali ma erano blog, gli spettacoli sembravano spettacoli ma erano tecnologie più o meno sofisticate che riempivano di fumo gli occhi. Tutti si dichiaravano “professionisti” di qualche settore anche se pochi ne avevano le credenziali. Tutto questo avveniva perché tutti rincorrevano la stessa cosa: il danaro.
Fu così che alcuni pensarono di fare di questa generale situazione di sbando un business. Anche quel modus vivendi e il malcontento generale che creava poteva diventare fonte di guadagno. Decisero così di abbracciare la nuova filosofia della distruzione totale di questo mondo e per fare questo, visto che ricoprivano ruoli di potere, cominciarono ad agire all’incontrario premiando gli incapaci e ignorando i virtuosi. Per fare questo moltiplicarono le sfide, i premi e la concorrenza senza regole e proclamando vincitori casuali. Più si intensificavano i premi ,più potere acquisivano, più potere acquisivano, più potevano guadagnare direttamente dagli “eletti”.
Se qualcuno muoveva loro delle critiche e li rimproverava di non avere criteri obiettivi essi rispondevano che quel qualcuno faceva parte del “vecchio mondo”.
IL pensare al mondo in cui vivevano quale “vecchio mondo” diede loro l’opportunità di stabilire finalmente un criterio di merito inoppugnabile: tanto più un artista, un intellettuale, un politico si dimostrava distruttivo nei confronti di questo mondo tanto più il suo valore veniva riconosciuto.
Chi, sano di mente, avrebbe infatti potuto difendere quel mondo pieno di contraddizioni? Ovviamente nessuno pensava realmente a ciò che diceva e faceva e perciò nessuno si preoccupava di indicare le possibili strade per sanare le sue storture, al contrario quella posizione apparentemente “ controcorrente” serviva proprio a mantenere quella società così com’era.
Del resto del mondo non importava a nessuno perché era stato perso il senso della storia, il senso del divenire, la memoria del passato e la progettazione futura.
Il danaro ed il modo di guadagnarselo riguardava solo il presente.
Solo un bambino rivelò un giorno con il suo pianto la triste verità rompendo un giocattolo e accorgendosi che non avrebbe più potuto giocarci. Più di qualcuno allora si accorse che la possibilità di un mondo nuovo non era dietro l’angolo e che l’unica certezza era quel mondo in via di distruzione.
LA PARABOLA SULLA SAGGEZZA DELL’INGENUITA’
In quel tempo il profeta chiese ai bambini cosa fosse l’arte.
I bambini risposero che l’arte permetteva di esprimersi con la fantasia in modo libero.
Il profeta chiese ancora ai bambini se fosse importante che le cose espresse nell’arte venissero comprese.
I bambini risposero che loro lo avrebbero preferito, ma che non era necessario comprendere una libera espressione artistica.
Allora il profeta chiese se dovesse considerarsi arte appallottolare la carta o stracciarla o lanciarla, se la loro fantasia lo avesse suggerito.
I bambini risero e dissero che certamente quella non poteva considerarsi arte.
LA PARABOLA DELL’INGENUITA’ CRITICA
In quel tempo vivevano molti critici divisi tra loro. Ciascuno percorreva la propria strada nel bene e nel male. C’era chi cercava a fatica di mettere un po’ di ordine nel catalogare i diversi spettacoli teatrali, chi si preoccupava di come potere sopravvivere facendo una professione per i più inutile, chi cercava di ritagliarsi un’immagine distinguendosi tra gli altri, ma tutti erano accomunati dall’identico interesse per l’oggetto di studio: il teatro.
Un giorno arrivò un profeta e disse loro: “Perché non uniamo le nostre forze e non suggelliamo questa unione con un patto?”
“ Che cosa ne ricaveremo?” chiesero i critici più anziani, disincantati.
“ Istruiremo i giovani” rispose loro il profeta “ Li accompagneremo verso la strada della conoscenza. Essi si uniranno a noi e daranno maggior forza alle nostre decisioni”.
“ Che cosa ne ricaveremo?” chiesero i critici più giovani, ancora inesperti e dubbiosi.
“ Vi daremo un sostegno, vi consiglieremo quando non saprete che strada intraprendere, ma soprattutto vi forniremo un’identità pari alla nostra” risposero gli anziani.
Il patto si suggellò ma i giovani non potevano ripercorrere a ritroso l’esperienza degli anziani, faticavano a separare sembianza e contenuto, né potevano fare confronti con tempi passati non vissuti.
Allora gli anziani interpellarono il profeta:
“ Cosa dobbiamo fare per correggere questa stortura?”
E il profeta rispose:
“Non è una stortura. E’ il tempo che corre. Le riflessioni sono fuori moda, anche i contenuti lo sono. Siete voi che dovete aggiornarvi e azzerare le vostre inutili conoscenze.”
Allora gli anziani cercarono di aggiornarsi e seppero che era stata inventata una nuova droga tecnologica efficace e legale, che riduceva il tempo e il pensiero, una via dell’oppio che ti manteneva sempre nel presente.
Come altre droghe ti dava l’illusione della pienezza e della felicità e come le altre droghe procurava dipendenza. Ma perché preoccuparsi della dipendenza se ti faceva stare bene?
Così il teatro perse la sua memoria e anche se stesso.